Cultura e Spettacoli

Il Rinascimento sanguigno e lombardo di Testori

Dallo studio dei Sacri monti lo scrittore trasse ispirazione per la prosa e per il palcoscenico 

Il Rinascimento sanguigno e lombardo di Testori

L’editrice Medusa, condotta da Maurizio Cecchetti, che tanti titoli di prestigio vanta nel proprio catalogo, sia tra le scoperte che tra le riscoperte, ripropone oggi uno dei titoli centrali, per alcuni aspetti centralissimi, dell’opera di Giovanni Testori: Il gran teatro montano (pagg. 240, euro 19,50) che raccoglie i saggi scritti da Testori su Gaudenzio Ferrari tra il 1956 e il 1964.
Non essendo uno storico dell’arte, vorrei provare a descrivere questo libro su altri versanti, in special modo quello che riguarda il romanzo di formazione del grande scrittore novatese, che ebbe inizio, voglio ricordarlo, non da un discepolato letterario o teatrale, ma da uno storico-artistico: quello che lo vide, ventottenne, allievo alla corte di Roberto Longhi. Fu sotto la spinta del suo grande maestro che Testori cominciò a compiere un lavoro fondamentale per la storiografia artistica, e non soltanto per quella, e cioè l’individuazione, se non di una scuola, di una trama autonoma della pittura lombarda - o lombardo-piemontese - fin dalla prima metà del 1500 (da Martino Spanzotti, allievo del Foppa, allo stesso Gaudenzio).
Un cammino complesso e non del tutto riferibile a fatti soltanto pittorici o artistici, che si rifà da un lato alla grande scuola rinascimentale di provenienza toscana, ma che dall’altro lato marca una differenza rispetto a quella via regia, cercando di affermare caratteri ed esigenze totalmente autoctoni. Fu così che la grande lingua rinascimentale imparò nuovi accenti, fino a catturare il fascino di temi e modi più «bassi», popolari, mentre la lingua popolare acquistò nuova sintassi dandosi un’universalità prima sconosciuta. Tale principio di commistione fu poi adottato, non in pittura ma in letteratura, dallo stesso Testori, che evidentemente dovette elaborare a lungo, dentro di sé, questo processo così intimamente lombardo, fino a secernere quella lingua speciale che, a partire dagli anni ’70, avrebbe dato vita e forma al suo capolavoro teatrale, la Trilogia degli Scarrozzanti. Dove l’alto precipita nel basso per afferrarlo e riportarlo in un’altra altezza, nuova.
In questa dinamica trova già posto, a mio avviso (ma lo stesso Testori mi confermò in questa idea) il carattere così fisico del suo cattolicesimo, a conferma che le date della conversione sono spesso riferimenti di comodo non per la verità dei fatti ma per la nostra coscienza che non desidera confronti difficili. Abbiamo accomodato nell’anno 1977 la conversione del novatese e lì la vogliamo lasciare: ma così non è, almeno per chi consideri il cristianesimo più l’esercizio di una dinamica umana che la professione di un’ideologia religiosa.
Ma c’è di più. C’è che Gaudenzio fu non soltanto uno dei tanti artisti impegnati nella realizzazione dei Sacri Monti (siti di pellegrinaggio che riproducevano, per chi non poteva recarsi a Gerusalemme, la fisionomia stessa dei Luoghi Santi) ma fu, secondo la ricostruzione testoriana, l’ideatore stesso del Sacro Monte più famoso, quello di Varallo Sesia. C’è che la commistione, popolarissima nell’origine ed elevata da Gaudenzio tra le vette della sua già fortunata età, tra pittura e scultura dipinta in legno, costituì anche la chiave, il punto cardinale e originante di quello che sopra ho chiamato il romanzo di formazione di Giovanni Testori.
Fu da questo teatro, immobile ma tesissimo, dove ogni «qui» e ogni «ora» suonano definitivi (il «qui» e l’«ora» della nascita, della Passione, della Crocifissione, che sono sempre «qui» e «ora», sia a Gerusalemme che a Varallo) Giovanni Testori attinse il modello del proprio teatro, anch’esso insistente su quella forza definitiva che rende sempre necessaria la rappresentazione scenica e, al tempo stesso, inutile ogni scioglimento. Come dire: la Croce fu vinta, il morto risorse, eppure quella morte, quel disonore (il «disonor del Golgota») resteranno sempre, marchio congiunto di salvezza e infamia, affinché sia proprio l’infamia ad essere salvata e portata, pur lorda di sangue, davanti a Dio. Insomma, il Sacro Monte costituì per Testori un modello teatrale e linguistico ineludibile, dando origine a quell’impasto potente che fu l’opera dello scrittore novatese, dal quale non si può né si deve scindere ciò che è «lingua» da ciò che è «teatro».


Per questo salutiamo con piacere il volume riedito da Medusa. Con un solo appunto: perché non corredare il volume con le necessarie illustrazioni così da rendere edotto il lettore meno addentro circa gli oggetti di cui si sta discutendo? Perché inserire, come unico materiale iconografico, undici tavole di Ilario Fioravanti - di cui, se non sbaglio, Testori in questo libro non parla mai?

Commenti