nostro inviato allAquila
Il centro ora è qui, dove un tempo cominciava la periferia. Il resto è nulla. La città vecchia è zona morta. Otto porte medioevali a guardia di una fortezza vuota. Dicono che ci vorranno dieci anni per ricostruire tutto. Il futuro è lincrocio di quattro contrade: Piazza dArmi, Santa Barbara, SantAnsa e Cappelletti. È qui che hai trovato un punto dove scrivere, dove cè un tavolino, una presa, un bar aperto e il distributore della Esso. I cittadini della tendopoli vengono a bere un caffè, qualcuno «scartavetrina» con una moneta da venti centesimi un Gratta e vinci, altri ci provano con le slot machine. Non si sa mai dove finisce la sfortuna. Al tavolino accanto c'è un vertice di medici, parlano di urgenze, farmaci, chirurgie e piani d'azione. L'unica cosa che hai capito è che «in tenda non si opera». Qui passa tutto. Il lutto e la speranza. Il dolore e le medicine. Cento passi più avanti c'è quello che resta della vita.
Il dopo dell'Aquila ha l'odore del pane. È il forno di Mimmo, quello che non ha mai chiuso. Erano le sette del mattino di quel giorno maledetto. La terra aveva buttato giù quintali di rabbia. Mimmo Dufrusine e Antonio, il cognato, telefonano alle commesse, alzano la saracinesca e mettono in piazza tutto quello che avevano infornato nella notte. Il pane da spezzare, il pane che è acqua, lievito e farina. È mani che impastano. È dove tutto ricomincia, cibo primordiale, come la manna nel deserto, come il corpo che ti sfama. Ma come ti viene in mente di stare lì la mattina quando il mondo ti è appena caduto addosso? «Non ci pensi. Lo fai e basta». Solo che non tutto è così facile. Dicono, loro due: «Per esempio non c'era il gas». Anzi, ancora non c'è. Il colpo di faglia che ha spezzato Onna ha sventrato da lì, andando avanti, le tubature del gas. Nessuno sa bene dove ci sono le perdite. Devono andare avanti un pezzo alla volta, ricostruire i tubi e controllare. Ci vorranno mesi, miglio a miglio. Fino ad allora i forni non funzionano. «A meno che...». «A meno che non si fa come noi quella notte. Niente metano, ma Gpl. Le bombole». Ti arrangi e speri che tutto sia normale, le scosse che ti perseguitano, le case che non ci sono più, la paura, il ricordo di una vita normale. Ti arrangi. Le commesse dormono nel retrobottega. Ivana ha portato i figli dai nonni, a Cerignola. «Almeno si lavora. E mi serve, mio marito è in cassa integrazione». Abbassi un po' i prezzi, perché non vuoi passare per sciacallo, e metti in vetrina la roba di sempre, il pane casereccio a un euro e cinquanta al chilo, la pizza bianca da forno che ti riporta indietro nel tempo, basta tagliarla in due e il companatico è prosciutto, salame, mozzarella. C'è un cartello in vetrina: «I vostri complimenti ci danno la carica».
Il Parrozzo è finito. Va via in fretta. È il dolce di qua. Il parrozzo dAbruzzo. Pane rozzo. Parrozzo. Quando crolla tutto ti attacchi anche a queste cose, alla tradizione, a quello che cè sempre stato. Solo così pensi che il domani sarà uguale. Sarà quello di una volta. Mimmo e Antonio ci credono e sperano che quello che bisogna fare si faccia in fretta. Le cose lunghe sono le peggiori, ci si mettono di mezzo i soldi e tutti vogliono mangiare. «Come l'ospedale». Mimmo ha 53 anni e quando sono cominciati i lavori non aveva neppure vent'anni. «L'hanno inaugurato nel 2003. E se sono andati piano e male c'è un motivo».
Questo forno è il centro del centro di un paese di tende blu. È l'occhio su quello che resta, e va avanti. Non so se ricordate quel film di parecchi anni fa. Si chiamava Smoke. Era una tabaccheria nel cuore di Brooklyn. La vita sembrava che passasse di là. Qui è la stessa cosa. L'Aquila è una città dimezzata. C'erano settantamila abitanti, ora superano a malapena i trentamila. Li vedi, li conosci. Arrivano verso mezzogiorno. C'è la guardia giurata della banca da campo, uno sportello di fortuna davanti a piazza d'Armi. E un bancomat. Lui non dice il nome, ma quella notte era di pattuglia al centro e ancora fatica a parlare: «Hai mai visto un palazzo accartocciarsi davanti a te?». Ci sono frate Aldo, frate Angelo, frate Luigi e frate Roberto. Sono di Foligno, cappuccini. Il più giovane ha la bandana in testa e la barba d'ordinanza. Li hai visti giocare scalzi a pallone tra le tende. Quello con la bandana ha un palleggio discreto e dopo la partita scapoli-ammogliati (gli scapoli tutti con il saio) un panino da Mimmo, Il fornaio aquilano, ci sta bene. C'è Laura che ha visto morire le sue compagne di casa sotto un cielo a spicchi. Una stava cercando di telefonare alla madre. Laura si è salvata perché il tavolo è caracollato a un passo dalla sua testa. Si è inginocchiata e rintanata lì sotto. Sopra di lei pezzi di muro e cemento. C'è la mamma con due bambine ancora con le pantofole rosa e la tuta con su scritto: «Gli uomini sono dei bastardi». C'è una ragazza somala che abitava al primo piano ed è scappata dalla finestra. E poi c'è Francesca.
Francesca è una dei ventimila studenti che qui valevano quanto un'industria. L'università era una delle più antiche d'Italia, seicento anni. Francesca viene da Picinisco, l'ultimo paese del Lazio, poi comincia l'Abruzzo. Quella notte non era tornata a casa, malgrado le scosse. Il giorno dopo aveva un esame, psicologia sociale. Lei studia riabilitazione psichiatrica. Ieri mattina è tornata qui come volontaria. È tornata nel suo appartamento, con la Protezione civile, a riprendersi i vestiti. Ha visto il letto da cui è fuggita, quasi dormendo. Non ricorda nulla, solo il calcinaccio sulla faccia che l'ha svegliata, con uno strano solletico. Questa volta ha visto. Ha visto che sul cuscino c'era un pezzo di muro. E ha capito che la vita è questione di centimetri.
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