Ripensare l’Unità senza urlare "viva i Borbone"

Per i 150 anni dell’Unità d’Italia il Giornale da domani regala ai lettori Italia unita. Il risorgimento e le sue storie (19 fascicoli in allegato gratuito col quotidiano)

Ripensare l’Unità senza 
urlare "viva i Borbone"

In occasione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia il Giornale regala ai lettori Italia unita. Il risorgimento e le sue storie (19 fascicoli in allegato gratuito con il quotidiano). Ecco il 3º di una serie di articoli firmati dai grandi nomi del Giornale per presentare l’opera. Oggi interviene Giordano Bruno Guerri, autore de Il Sangue del Sud (Mondadori)

Quando si comin­ciò a parlare dei festeggiamenti per l'Unità d'Ita­lia, ormai tre an­ni fa, nessuno previde che sull'evento si sareb­be abbattuta una raffica di libri che mettevano in discussione, se non il Risorgimento, il modo in cui fu compiuto. Eppure, era quanto di più normale- e giusto - ci si potesse aspettare. Sempli­cemente perché il nostro Risor­gimento non è quasi mai stato visto in una luce davvero critica, se non da certa storiografia marxista, o gramsciana, e quin­di di parte, non attendibile. Per oltre sessant'anni, fino al regime fascista, il potere venne detenuto da quella stessa classe dirigente che aveva voluto e rea­lizzato l'Unità, poi dai suoi suc­cessori. C'era da costruire ilcul­to della patria - ovvero- «fare gli italiani» e la storiografia aveva più i toni del Cuore deamicisia­no che quelli dell'analisi critica. Il fascismo, in seguito, non ebbe particolare interesse a esaltare il Risorgimento, figlio di quel libe­ralismo che aveva appena ab­battuto, ma tanto meno aveva interesse a metterne in dubbio i valori, sui quali si fondavano sia l'unità degli italiani sia quel­l'amor di patria da trasformare in culto del regime.
Dopo la Seconda guerra mon­diale, avevamo ben altri proble­mi che ripensare in modo criti­co alla storia del Risorgimento, che anzi divenne quasi un balsa­mo: Garibaldi rafforzò il suo mi­to popolare, e perciò intangibi­le, in ogni schieramento politi­co. Nel 1961 l'Italia e gli italiani, che stavano uscendo dalla crisi, festeggiarono acriticamente il centenario dell'Unità innaffi­an­dolo con lo spumante del boom economico alle porte. In segui­to c'è stato altro da fare, in cam­­po storiografico: ristabilire- con il cosiddetto revisionismo - un minimo di oggettività riguardo al regime fascista e alla Resisten­za. Per il Risorgimento non c'è stato molto posto, se non nei pensieri di qualche studioso specializzato. E la vulgata, ovve­ro l'informazione di massa tra­mandata attraverso le scuole, è rimasta più o meno quella del 1961. Molti saggi pubblicati nel 2010, concentrati più sulle om­bre che sulle luci del Risorgi­mento, erano una necessità fi­siologica nella memoria storica del Paese, un atto doveroso e ne­cessario anche se ha prodotto grano e loglio. Anch'io ne ho pubblicato uno, di cui non cito il titolo per evitare accuse di inte­resse privato in atti d'ufficio ( tut­to è possibile, in questi tempi), ma dove si legge: «Furono deter­minanti la scarsa abilità dei pie­montesi nel conciliare il vec­chio con il nuovo, la loro inade­guatezza a comprendere natu­ra, tradizioni e costumi di popo­lazioni diverse, la loro violenta determinazione nel trasforma­re un incontro in uno scontro, una fusione in un conflitto, una liberazione in uno stato d'asse­dio permanente ». Il Sud era una colonia assetata e imbarbarita da educare e, soprattutto, da cu­rare, come si conviene a un me­dico­tanto più saggio quanto im­pietoso.
L'Italia esisteva soprattutto nella mente della classi colte set­tentrionali, pochissimo- o affat­to- nel popolo meridionale: che inizialmente l'accolse bene,gra­zi­e soprattutto alle promesse fat­te da Garibaldi di dare le terre ai contadini. Così che i Mille diven­nero cinquantamila, per lo più «terroni», come si riprende a di­re oggi con un ritrovato orgoglio meridionalista. I cinquantami­l­a però vennero sciolti, per timo­re di accoglierli come forza ar­mata regolare, e delle terre ai contadini neanche a parlarne. Arrivarono, invece, nuove tas­se, nuove leggi e soprattutto la terribile leva piemontese, lunga sei anni e alla quale non era pos­sibile sfuggire. I molti che sfuggirono diventa­rono "briganti", e per anni so­stennero una vera e propria guerra civile che fu stroncata sol­tanto impiegando metà del­­l'esercito, con metodi da truppe di occupazione, con leggi spe­ciali, con una dittatura militare, con l'arma - inaugurata allora - dei "pentiti". La violenza ne ge­nerò altra, sempre peggiore: i morti, furono, nell'esercito, più che nelle tre guerre d'indipen­denza messe insieme; fra i meri­dionali, almeno centomila. Un'ecatombe che accrebbe il di­vario mentale fra Nord e Sud. Si spiegano così prima l'adozione di una politica economica e so­ciale del tutto inadeguata a af­frontare i problemi del Mezzo­giorno, poi più tardi la perseve­ranza con cui quei problemi vennero liquidati come sintomi indelebili di arretratezza e di pa­rassitismo. La questione meri­dionale era o­rmai destinata a in­cancrenire la vita politica del no­stro Paese e a perpetuare la con­trapposizione Nord-Sud.
Proprio nell'imminenza dei 150 anni, l'antimeridionalismo da cui è nacque la Lega Nord sta per sfociare in un federalismo sospettato, in parte del Meridio­ne, di voler danneggiare le regio­ni più povere e sta dando origi­ne alla nascita di movimenti uguali e contrari nel Sud, se non addirittura a nostalgie neobor­boniche. È un motivo in più per conoscere seriamente cosa ac­cadde davvero, se non si vuole cadere nella trappola di interes­si sol­tanto apparentemente con­trapposti. Ho scritto, ancora, nel libro che non nomino: «Non si tratta di denigrare il Risorgi­mento, bensì di metterlo in una luce obiettiva,per recuperarlo - vero e intero - nella coscienza degli italiani di oggi e di domani: continuando a considerarlo un atto fondamentale - necessario e benigno - della storia d'Italia, pur con tutti gli errori e le colpe che accompagnano i grandi eventi epocali. Se ciò accadrà (...

), rivedere il Risorgimento non significherà rimpiangere Radetzky o Francesco II, a se­conda che il nostalgico si trovi a Milano o a Palermo».
www.giordanobrunoguerri.it
(3 continua)
 

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