Ormai i dati sono sufficienti per analizzare in modo più approfondito la ribellione delle periferie urbane. Due, in particolare: a) le aree incendiate in Francia e - fenomeno di scala minore, ma significativo - nel resto d'Europa sono luoghi ad alta concentrazione di immigrati musulmani; b) tutti gli indizi sostengono l'ipotesi che le sommosse non siano dovute solo al disagio sociale, ma, fattore prevalente, ad una montante mobilitazione islamica. Nessun governo ha interesse ad evocare una «minaccia islamica» proprio per non crearla. E, alla luce delle scienze della sicurezza, è la scelta più sensata perché la miglior difesa contro il rischio di eurointifada è quella di saper distinguere tra islamici, scusate la semplificazione, «buoni» e «cattivi», incentivando i primi all'autoassimilazione ed alla collaborazione per contenere i secondi. Ma sarebbe sbagliato prevenire tale rischio tacendo i segnali che lo indicano. Due errori, infatti, aumenterebbero il pericolo: esagerazione o negazione. La sinistra sta facendo il secondo. Il governo francese fa fatica a trovare un giusto mezzo per evitare ambedue.
Prodi non ha emesso a caso la profezia che anche in Italia le periferie verranno incendiate perché povere. La ha detta, invece, per sviare l'attenzione dal pericolo islamico perché questo è stato aggravato dalle politiche lassiste di sinistra. E per dare un contentino ai portatori dell'analisi marxista: sono le pessime condizioni materiali di vita, e non certo fattori sovrastrutturali come l'identità, che scatenano la ribellione. Cominciamo da qui. La sociologia che fa ricerca, e non ideologia, non trova una correlazione netta e diretta, prevista dal paradigma marxista, tra condizioni materiali e comportamenti. Quindi tra i due c'è un mediatore che non è sovrastruttura, ma struttura vera e propria: identità di appartenenza, religione, ideali, ecc. E propongo questa lettura per il ribellismo islamico. È improbabile che i giovani musulmani abbiano acceso guerriglia solo perché poveri ed emarginati.
La ribellione è stata indotta da un fattore culturale. Quale? O un fenomeno spontaneo di contagio comunicativo della nuova «identità musulmana antagonista» oppure una centrale strategica ha voluto portarla dallo stato latente a quello attivo, forse un test per il futuro. La seconda ipotesi è sostenuta dai fatti. Tra i quali è indicativa l'azione di gruppi ben addestrati ed organizzati come commando. Professionali. In sintesi, dobbiamo ammettere la possibilità che migliaia di giovani musulmani siano stati raggiunti da un messaggio: non integrarti, lotta per l'Islam. Lo stesso che ha portato giovani inglesi musulmani di seconda generazione a mettere bombe a Londra. E le sinistre vorrebbero risolvere questo problema dando agli interessati più soldi convinti che si ribellino solo perché non ne hanno? Il problema appare diverso: chi potrebbe integrarsi non lo fa perché trova più eccitante la missione datagli da una scuola coranica, da un Imam, da una delle centinaia di organizzazioni in rapporto di franchising con Al Qaida. Questo è il nuovo fenomeno che dobbiamo affrontare, che può diffondersi all'Europa dal focolaio di una Francia con quasi dieci milioni di musulmani (20 nella Ue). Non è questione (solo) di politiche sociali, ma di «sicurezza attiva». E come Parigi la gestirà avrà conseguenze paneuropee.
Al momento quel governo sta cercando di intensificare la repressione con episodi dimostrativi di «tolleranza zero», ma bilanciati da un linguaggio buonista. Tale mix di «bastone e carota» potrà sedare, ma difficilmente risolvere. Perché la reticenza a dichiarare una «emergenza islamica», per i motivi detti sopra, impedisce di erogare il bastone e la carota dove meglio avrebbero effetti. Il punto: la paura di esplicitare il rischio di eurointifada ne rende più difficile la gestione.
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