Il giorno dopo una Germania surreale. Anzi, due Germanie. C'è quella dei giornali, del mondo dell'economia, degli istituti di ricerca. È angosciata dal risultato delle elezioni. Si rende conto che il Paese avrebbe bisogno di cambiare rotta per interrompere la spirale del declino economico; avrebbe bisogno, come sempre nei momenti difficili, di una leadership forte, come furono quelle di Adenauer, di Erhard, di Schmidt, di Kohl. E invece deve prendere atto che il sistema elettorale non è più infallibile e che, per la prima volta, ha prodotto un Parlamento frastagliato, in cui nessuno dei due schieramenti moderati ha ottenuto la maggioranza. Assiste, quella Germania, allo sconcertante tentativo di Gerhard Schröder di strappare ad Angela Merkel un mandato che le spetta di diritto: quello di Cancelliere della sempre più probabile «Grosse Koalition» tra la Cdu - primo partito, sebbene solo per una manciata di voti - e l'Spd. E non si illude più sul senso di responsabilità di una classe politica, avviluppata nelle proprie logiche di potere.
Ma poi esci per strada. Osservi i volti della gente, che prima delle elezioni erano tesi e ora sono rilassati. Parli con gli studenti, gli impiegati, i pensionati e li scopri beatamente fiduciosi. Sì, a loro piace la «Grosse Koalition». In fondo alla vigilia del voto la maggior parte dei tedeschi l'avevano auspicata, negli unici sondaggi che non sono stati sbugiardati dallo scrutinio. Il Paese non voleva più il governo rosso-verde per ragioni più che comprensibili: in sette anni la disoccupazione è salita oltre l'11%, lo Stato ha accumulato deficit giganteschi e l'economia è cresciuta a tassi anemici. Ma al contempo gli elettori diffidavano della Merkel e dei liberali, ritenuti troppo radicali. E allora meglio un accordo, anche se controvoglia, tra i due partiti principali; perché i problemi, a Berlino, non si risolvono alla radice, energicamente, ma sedendosi tutti assieme attorno a un tavolo - politici, banchieri, sindacalisti, industriali - cercando con calma soluzioni possibilmente indolori. Sono le logiche di un sistema, quello consociativo, che ha permesso alla Germania del dopoguerra di raggiungere la prosperità. Ma poi è arrivata la riunificazione con la Ddr, i cui costi hanno dissestato le finanze di uno dei Paesi più solidi e virtuosi al mondo. E la globalizzazione. E l'euro. E uno Stato sociale onnivoro e insostenibile. Risultato: il capitalismo sociale, che tanti benefici ha portato in passato, oggi non funziona più. Anzi, funziona al contrario: assorbe ricchezza anziché crearne. Le elezioni di domenica scorsa offrivano al Paese l'opportunità di prenderne coscienza. Un momento doloroso, ma ineludibile; per reagire, per tornare a primeggiare.
E invece guardando gli occhi sorridenti dei tedeschi, respirando l'atmosfera rilassata e piacevolissima di Norimberga, di Amburgo, di Bonn, capisci che i tedeschi hanno deciso di esorcizzare le proprie paure e di rimandare il chiarimento a un futuro indefinito; come se bastasse lasciar scorrere il tempo per far evaporare ogni problema. Come se, ancora una volta, l'establishment potesse risolvere tutto amabilmente, con la benedizione della Cdu e dell'Spd.
È una Germania distratta e benevola che non vuole più soffrire o, forse, che non ha sofferto abbastanza per decidersi a cambiare veramente.
marcello.foa@ilgiornale.it
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.