«Rosso è malupilu» scriveva il siciliano Giuseppe Pitrè nella seconda metà dellOttocento. Gli faceva eco Giovanni Verga, che nella Vita dei campi decideva di dedicare al figlio rossiccio di «Mastro Misciu Bestia» il soprannome di Malpelo, e con esso il titolo di una delle sue più celebri novelle. Una quindicina di anni dopo, Jules Renard tornava sullargomento. Nel 1894 nacque così Poil de carotte, e al tempo stesso cambiò anche il modo di scrivere un romanzo o un racconto.
La storia del libro, ora ripubblicato per Feltrinelli in unedizione curata e tradotta da Rossana Campo (pagg. 165, euro 7,50), è nota: racconta linfanzia di Peldicarota, un bambino solitario e «dai capelli rossi» che vive emarginato dalla propria famiglia. Il padre, Monsieur Lepic, è sempre assorto nei suoi pensieri; la madre è tutta dedita alle sue nevrosi e alle angherie che perpetra al figlio. Dal canto suo, Peldicarota è incaricato dei più fastidiosi compiti, come «chiudere le galline nellaia» e «finire le bestie che sono già ferite». Quando ha tempo «gioca a niente sotto il tavolo», ogni tanto contempla le stelle, trovandole «di una purezza scintillante da farlo rabbrividire», più spesso «si congratula con se stesso per averla scampata bella, e spera che continui ad andar sempre bene».
Poil de carotte non è il primo bambino dell800 letterario, ma non è accostabile a nessuno di essi. È lontano da Gavroche così come da David Copperfield perché non conosce lutti e tribolazioni, ma ha maggiore consapevolezza della vita. La sua tragedia ed il suo tormento nascono da lì, e con esse la sua ipersensibilità nervosa. Ma Peldicarota è anche un pugno nello stomaco al politicamente corretto e al mito del «bambino buono». È lepifania del male raccontata sin dallinfanzia ed è al tempo stesso la distruzione della favoletta della sociologia della devianza, che vuole che la società (e solo quella) incattivisca il «mite fanciullino». E infatti nei suoi diari, anni dopo, Renard avrebbe scritto: «Victor Hugo e tanti altri hanno descritto il bambino come un angelo. Invece bisognerebbe vederlo come un essere feroce, diabolico, una piccola bestia pronta a tirar fuori le unghie appena incontra sulla strada qualcosa di debole e tenero».
Il libro è però anche un resoconto autobiografico e tragico (dei più tragici, dei più autobiografici) di uninfanzia trascorsa in un piccolo comune rurale. Renard attinse dalla propria esperienza e tentò di trasformare il suo rancore in unopera per fossilizzarlo, senza mai riuscirvi. Non fu un caso che alluscita del libro, alla sorella che ne esigeva una copia, rispose gelido: «Tu mi chiedi Poil de carotte.
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