Politica

Il ritorno nell’ex colonia, cent’anni dopo

Le coincidenze della Storia: nel 150° dell’Unità ci scontriamo di nuovo col Paese nordafricano che conquistammo proprio un secolo fa. La campagna intrapresa da Giolitti divise gli italiani tra nazionalisti entusiasti e voci scettiche

Il ritorno nell’ex colonia, cent’anni dopo

Quando l’Italia sbarcò sulle coste libiche erano i primi giorni di ottobre del 1911. In quell’anno si celebrava il cinquantenario dell’Unità con uno spirito, carico di orgoglio per i risultati raggiunti, molto diverso da quello, percorso da recriminazioni antistoriche e da pulsioni secessionistiche, con il quale si sta festeggiando il centocinquantesimo compleanno dell’Italia unita. È una coincidenza curiosa - ma nulla più e solo come tale vale la pena di registrarla - il fatto che l’Italia potrebbe trovarsi, in qualche modo, coinvolta in una operazione bellica contro la sua ex colonia. Tale, infatti, potrebbe apparire la concessione da parte dell’Italia di basi logistiche e, probabilmente, anche di mezzi aerei per rendere operativa la risoluzione approvata dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu volta a creare, «con tutti i mezzi a disposizione» compreso l’uso della forza, la cosiddetta no-fly zone sulla Libia. E le minacce di Gheddafi, la sua promessa di creare «un inferno» nel Mediterraneo sono eloquenti, anche se, a quanto pare, le ultime notizie riferiscono di un cessate il fuoco del governo libico nella sua azione di repressione dei ribelli. L’ammonimento riguarda comunque, in primo luogo, l’Italia, proprio perché l’Italia è il Paese la cui storia è, più di quella di altri, intrecciata con le vicende dello Stato nordafricano.

La guerra, intrapresa un secolo fa da Giolitti per la conquista della Tripolitania e della Cirenaica, fu, all’epoca, in Italia, molto popolare. Era stata preparata da tempo con una intensa attività diplomatica durata anni ed era stata resa possibile dall’evolvere della situazione politica internazionale dopo che la Francia aveva occupato il Marocco. Alle voci contrarie - prima fra tutte quella dello storico Gaetano Salvemini che parlava di quel territorio che l’Italia voleva colonizzare come di «uno scatolone di sabbia» - si erano contrapposti gli entusiasmi dei nazionalisti e di una parte dei sindacalisti rivoluzionari, ma anche le pressioni di ambienti economici e bancari e la simpatia di larghi settori del mondo cattolico moderato. La conquista e la colonizzazione di quel territorio erano visti non solo come un riscatto, morale e politico, delle umiliazioni subite dall’Italia in Africa, ma anche, e soprattutto, come l’apertura di una valvola di sfogo per l’emigrazione italiana.

A rievocare il clima di quei giorni basta ricordare non solo le parole della canzone più popolare del tempo - «Tripoli, bel suol d’amore, ti giunga dolce questa mia canzon! - ma anche i versi delle canzoni delle gesta d’oltremare pubblicati da Gabriele D’Annunzio sulle pagine del Corriere della Sera e il celebre discorso di Giovanni Pascoli che iniziava con le parole: «La grande proletaria s’è mossa».
La guerra costò molto, oltre un miliardo di lire e migliaia di morti, ma la guerriglia, a pace conclusa, durò a lungo, quasi quindici anni in Tripolitania e più di venti in Cirenaica. Si erano succeduti come governatori della Tripolitania Giuseppe Volpi di Misurata dal 1922 al 1925, Emilio De Bono dal 1925 al 1928, Pietro Badoglio, nominato governatore unico della Tripolitania e Cirenaica. Poi, nel 1934, era cominciata l’era di Italo Balbo, come governatore della Libia che riuniva insieme Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Fu l’epoca della colonizzazione vera e propria. Poi c’erano state la guerra, il dopoguerra, la decolonizzazione, la monarchia di re Idris I, poi nel 1969 il colpo di Stato che avrebbe portato al potere il colonnello Muhammar Gheddafi.

La dittatura di Gheddafi si caratterizzò subito come anti-italiana. Il motivo era sia di natura personale sia di natura politica. Personale, perché Gheddafi proveniva da una famiglia beduina, che aveva combattuto contro gli italiani. Politica, perché il dittatore aveva bisogno, per supportare il proprio potere, di un mito fondativo cui fare riferimento per convogliare attorno a sé le forze del Paese. E il mito, la «leggenda nera», non poteva essere che quello dell’Italia crudele, sfruttatrice e colonialista. Gheddafi era costretto a «costruire», per così dire, una storia della Libia in opposizione a quella Italia senza la quale essa non sarebbe neppure esistita per il semplice fatto che, nel 1911, al momento dell’occupazione italiana, in quei territori non esistevano altro che tribù, comunità isolate di pastori e mercanti: nulla che potesse essere paragonato a un embrione di Stato.

Di fronte alle periodiche sfuriate anti-italiane di Gheddafi l’Italia fu accondiscendente e remissiva. Lo fu nell’ammettere le colpe del proprio passato coloniale, come fece per esempio Massimo D’Alema agli inizi del 2000 quando incontrò il colonnello a Tripoli. E come fecero, pazienti e fiduciosi, anche altri, non escluso Silvio Berlusconi, nella convinzione che l’abilità della diplomazia e i rapporti commerciali ed economici potessero bilanciare le preclusioni politiche, culturali e ideologiche. Del resto, anche altri Paesi europei, dalla Francia alla Gran Bretagna alla Germania, non esitarono a portare avanti, nei confronti del dittatore, una politica fatta di aperture e contatti che, privilegiandone una pretesa immagine di nemico dei fondamentalismo e di elemento stabilizzatore di una delicata area geopolitica, finiva per mettere da parte la stagione della rivoluzione culturale del Libro Verde - quasi una versione libica del Libro Rosso di Mao - o la stagione nella quale Gheddafi svolse il ruolo di imprenditore e finanziatore del terrorismo internazionale.

Comunque evolva la situazione, questa crisi confermerà l’insegnamento che i dittatori sono sempre dittatori.

Commenti