Nelle figurine di quellanno Gianni Rivera aveva i capelli alla mascagna. Era il 1963 e frequentavo la prima elementare, grembiule blu e fiocco bianco. In quel Milan già intarsiato di brasiliani come Dino Sani e Altafini e Amarildo, giocavano Trapattoni, Lodetti e Maldini padre. Raccogliendo e rimirando le loro foto divenni tifoso e quei ragazzi miei fratelli maggiori. È trascorso quasi mezzo secolo dallora e tra qualche giorno seguirò con occhio guardingo il mio mito dinfanzia inchinarsi davanti a Milly Carlucci o fare la riverenza a Yulia Musikhina. Con i suoi sessantotto anni di leggenda. Un blasone aristocratico e le erre arrotate. E una classe portata senza megalomanie.
Un po ballerino Rivera lo era anche sul prato verde. Elegante, incline al volteggio palla al piede, essenziale nei movimenti. E in possesso di «un tocco in più». Che, come scrisse Oreste Del Buono, era una filosofia. Unestetica. Anzi, lestetica al potere. Perciò, forse lazzardo di partecipare a una gara di ballo nazionalpopolare in prima serata sulla rete ammiraglia della Rai vero azzardo non è. Però: chissà se la leggiadrìa non sarà sopravanzata dalla goffaggine. E se il boogie-woogie e il cha cha cha non metteranno a nudo lo scorrere del tempo.
Ventenne, Rivera era il nostro idolo indiscusso. Il passaggio filtrante, il dribbling leggero che scioglieva nugoli di terzini, il pallone che traversava il campo per depositarsi sul piede del compagno davanti al portiere, si trattasse di Pierino Prati o di Gigi Riva, in Nazionale. Talento al servizio della squadra, più di altri fuoriclasse che arriveranno dopo, altrettanto dotati ma forse meno propensi a far viaggiare la palla. Rivera però fu il primo di quella genìa che comprenderà Cruijff, Platini e Zidane. Sempre contrapposto a Mazzola, più nevrotico e funambolico, ma meno elegante. Scegliere luno o laltro era il più appassionante dei derby. Altro che «abatino», come lo battezzò Gianni Brera, più gran scrittore che intenditore di calcio, e perciò bersaglio di noi rossoneri. In quellItalia lì, del boom e delle radioline allorecchio la domenica pomeriggio, il calcio era la seconda(?) religione. Rito unificante davvero, interclassista come Lucio Battisti e «smuovisangue» come le prime minigonne. E con la schiettezza del ragazzo di provincia, Rivera era il simbolo della gente che cominciava a dire la sua, avendo introdotto i primi germi di pensiero nelle dichiarazioni post-partita dei calciatori. Una scuola di critici è disposta a sostenere che lex golden boy sia stato il più grande giocatore italiano di sempre, più di Baggio, Baresi e Totti. Parecchi anni dopo labbandono del calcio giocato e defilatosi dal Milan, lo incontrai alla Camera, fresco deputato nel centrosinistra, e ne approfittai per stringere la mano al mio mito di gioventù.
Adesso rispunterà dritto da quellalbum di ricordi. «Ho sempre cercato di cambiare me stesso», ha centellinato qualche giorno fa. «Mi sono sempre messo in gioco e anche questa volta lo faccio. In fondo lunica vera costante della vita è il cambiamento». Non fa una piega. A mente fredda, lex golden boy - golden anche nel cachet - ha ragione anche stavolta.
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