La promessa di Abu Mazen di essere la risposta che il mondo cerca al disastro politico e umanitario di Hamas giustifica lenorme mobilitazione mondiale per aiutarlo a rafforzarsi? Vale il suo prossimo incontro, domenica a Sharm el Sheikh, certo promosso su ispirazione americana ed europea, con Mubarak, con re Hussein, con Ehud Olmert?
Cerchiamo qualche risposta in giro per Ramallah, la capitale del West Bank, la sede del governo di Abu Mazen. Cartelloni con le immagini benedicenti di Abu Mazen sovrapposto a quelle di Arafat, musica assordante dagli altoparlanti, un corteo di un paio di centinaia di persone in testa al quale marciano giovani tanzim e attivisti con i capelli carichi di gommina, la kefiah al collo, produttori instancabili di slogan in rima: in piazza Manar a Ramallah sembra quasi festa. I leoni di pietra devono essere stupiti, un clima così allegro in piena sciagura. Ma la gente va veloce per i suoi affari, e si assembla il rally pro Abu Mazen: «Credevo che fosse un corteo matrimoniale; un piccolo corteo» ridacchia un vecchio in galabja bianca e barba bianca, uno fra i pochi non rasati in tempo di guerra con Hamas. «Salutiamo Abu Mazen, oh Hanje go home»; «Quello vostro non è Islam, è strage organizzata»; «Oh Hanje o Mashal (i capi di Hamas ndr), stanotte vi risponderemo»; «Oh Abbas (Abu Mazen, ndr) avanti, Gaza aspetta la liberazione».
Marciano nelle strade intorno tornando a Manar gli attivisti dei due sessi, guidati da Ziad Abu Ein, alto e grosso, in giacca cravatta e baffi neri. Un mio amico giornalista palestinese, Khaled Abu Toameh, mi racconta sul posto che, il leader, oggi maggiorente di Fatah, nell87 fu condannato per un attentato a Tiberiade e riconosciuto colpevole dellassassinio di due israeliani. Poi è tornato libero con uno scambio, poi di nuovo dentro per altri crimini politici, poi di nuovo fuori in un altro scambio, adesso è un leader importante, circondato, e si vede mentre marcia con la cravatta e labito scuro in testa, da rispetto e riverenza. È un combattente, come molti altri leader della sua età, e per questo è diventato parte del gruppo dirigente.
Fatah cerca di disegnare unimmagine rassicurante e forte per il popolo, e attraente per gli Usa, lEuropa, Israele che hanno già dichiarato il loro grande speranzoso appoggio a Abu Mazen. Abu Mazen da parte sua è attivo come non mai e anche arrabbiato, denuncia gli assassini che volevano ucciderlo, riunisce il nuovo governo, promette riforme, si impegna a smantellare tutte le milizie illegali. Ieri ha annunciato che i tanzim di Jenin e Nablus, persino quelli più duri come Zacaria Zbedi, dovranno consegnare le armi. La gente sorride: «Fra il dire e il fare... A meno che non garantiscano a tutti un buon posto nella polizia di Stato, come è del resto possibile».
Da Gaza la sfida che giunge è quella dellordine, di cui i palestinesi sono affamati dopo decenni di corruzione della classe dirigente e di prepotenze delle milizie: la tv di Hamas manda in onda, e si vede in tutta la Cisgiordania, immagini pastorali, Gaza sul teleschermo sembra avere un paesaggio addirittura verde, strade in cui il traffico circola senza intoppi, la gente intervistata dice di sentirsi rassicurata e tranquilla senza i bulli miscredenti di Fatah. Lordine regna a Gaza, le reti internazionali, noi abbiamo sentito Sky News, cominciano a suggerire che magari alla fine Gaza sarà più pulita, che deglutirà le sue lacrime di grande coccodrillo ancora sporco di sangue dopo aver sgozzato, fucilato sul posto, linciato, buttato dai piani alti un centinaio di persone per instaurare Hamastan, il regno dellislamismo contro quello della corruzione. Crudeli che siano stati, e lo sono stati, tuttavia gli uomini del Fatah non sono giunti a tanto.
I leader ci tengono a rimarcare la differenza: Naim Tubassi, il presidente dellassociazione stampa, vivace e pallido, con giacca e cravatta, trasmette la sua ansia con un eloquio preoccupato e veloce nel caldo della piazza: «Spero, spero che lEuropa e il mondo capiscano che solo Fatah può garantire la ragionevolezza, la ripresa del processo di pace; che Abu Mazen ora è più forte, è più determinato di prima perché ha capito cose che nessuno poteva immaginare, perché ha ottenuto il sostegno di tutti quelli che non vogliono lIran in casa. No, non mi fraintenda, noi useremo solo mezzi legali. Sì, lo so, Fatah è accusata di corruzione, di prepotenza delle milizie. Ma ecco, stiamo smobilitando tutto ciò che non è legale. Siamo contro il terrorismo. Riforme importanti bloccheranno la corruzione, cambieremo la classe dirigente». Ci spera, ci crede, si vede che è sincero.
Ma due squadre di persone interpellate ci appaiono significative. Fra gli attivisti un giovane alto dice chiaro e tondo: «Vogliamo Dahlan». Dahlan? Proprio lui che è fuggito e non ha difeso Gaza? Che vive in un hotel a cinque stelle? «Sì, lui: un ricambio, ma interno. Niente cambiamenti alla cieca. Dahlan è fuggito proprio perché la sua importanza lo faceva odiare troppo, lo condannava a morte...». Dahlan, con la sua giacca da Fatah boss, la sua cravatta da Fatah regimental, i soldi, le armi, quarantenne che ha a che fare con il terrorismo ma che sa parlare con gli occidentali. Come Barghouti. Ha perso un round, può vincere lo scontro, dice il sostenitore. E semmai, che venga a stare a Ramallah; Gaza per un po può cuocersi nel suo brodo.
Certo i leader non parlano così: spiegano la laicità e laffidabilità democratica di Fatah. Ma la gente è chiara: dobbiamo rimettere in equilibrio Fatah, per il bene dei palestinesi, pensano alcuni; Fatah è quello che è, pensano, ma se gli aiuti del mondo saranno sufficienti, adesso per un po vivremo meglio che con Hamas alla giugulare. Ma non sarà un guaio che si consideri Fatah collaborazionista di Israele e degli Usa? La risposta è sorprendente: «No, che ci importa chi è lo sponsor ormai, dobbiamo salvarci e battere Hamas».
Laltro ambito di persone che abbiamo chiamato «squadra» è del tutto diverso.
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