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Robert Hughes ovvero l'arte di massacrare le icone dell'arte

I bersagli preferiti dal critico erano «la cultura del piagnisteo» e gli orrori del «contemporaneo». Senza sconti per nessuno

Davide Brullo

Rete e carcere. Bastano queste due parole a centrare il genio di Robert Hughes. Per spiegare che cosa fosse la satanica «cultura del piagnisteo», il bigotto perbenismo, il politicamente corretto che ha castrato l'Occidente dei propri attributi culturali, Hughes faceva l'esempio della rete. «Potremmo purgare il tennis dei suoi sottintesi elitari: basta abolire la rete», scriveva, con la rabbiosa ironia di un Jonathan Swift in jeans. Si riferiva a quelli, per intenderci, decorosamente arricchiti, che arricciano il naso di fronte a un Presepe ma esultano di gioia al cospetto di un rito orgiastico amazzonico. Poi c'è il carcere.

Nato a Sydney nel 1938, babbo giudice di Corte, uomo concreto e poco avvezzo agli svolazzi dell'arte, a Robert, che razziava la biblioteca di quartiere (amava Kipling, Lewis Carroll e i poeti romantici), non andava a genio la frottola retorica «dell'Australia Felix», della «storia dell'Australia» che «comincia con l'avvento della rispettabilità e del benessere». L'Australia, al contrario, nasce come carcere a cielo aperto, come cloaca europea, come incubo incubato da «centosessantamila forzati che facevano risuonare le loro catene». Nel 1987, covato ed elaborato per dieci anni, esce La riva fatale, un libro pazzesco, scritto con le astuzie narrative di un Charles Dickens e la ferocia di Tucidide, che spiattella al mondo l'amara verità: la terra dei canguri nasce come spietato regime concentrazionario, il luogo in cui Madama Inghilterra si liberava, vomitandoli all'altro capo dell'oceano, degli asociali, dei disturbati, dei galeotti. In sostanza, ci dice Hughes, il motore economico del pianeta è il male, la punizione, l'ingiustizia.

A quell'epoca, però, a metà degli anni Ottanta, Robert Hughes è già quello che è: faccia da molosso con gli occhi azzurri, tre mogli al seguito (la prima, tra l'altro, la ruba a Jimi Hendrix), il mastino della critica d'arte. Uno che sfotte, percuote, tartassa gli orrori del «contemporaneo» e del radical chic, incarnato da Andy Warhol, «il ragazzino della classe operaia che ha passato troppo tempo a sguazzare nel blu anestetizzato di uno schermo televisivo, come Narciso nella fatidica pozzanghera», scrive, pigliandolo a freccette, «e che ha capito che gli anni Sessanta erano il periodo culturalmente favorevole per promuovere il vuoto». Uno, Robert Hughes, che ha scassinato il sistema delle roboanti quotazioni del mercato dell'arte con questo cinico aforisma: «I prezzi nel mondo dell'arte? Dipendono dal voyeurismo e dallo snobismo, entrambi tossici. Sono ciò che si vede quando si ammira il buco del c**o della cultura». Impeccabile.

Una radiosa irriverenza che colpiva catarticamente tutti, da Mark Rothko («il suo problema? Impiegare il vocabolario del simbolismo per descrivere la disperazione patriarcale del Vecchio Testamento») a Damien Hirst (con il quale andava a nozze, «non ha del miracoloso il fatto che un tizio dotato di così poco talento possa fare così tanti soldi?») a Jean-Michel Basquiat, lo Yahvè dei graffitari, disintegrato in un articolo che ha fatto storia, Requiem per un Peso-piuma, del 1988: «la sua è la storia di un talento minuscolo catturato nell'assordante ronzio promozionale dell'arte, assurdamente sopravvalutato da galleristi e collezionisti, senza dubbio, nel futuro, una fonte di imbarazzo per i critici».

Ovviamente, lo sguardo di Hughes non si ferma a lordare le icone dell'arte contemporanea. Alza lo sguardo, il tiro, il concetto. «Cosa ha perso la cultura degli anni Ottanta che aveva l'avanguardia della fine dell'Ottocento? L'esuberanza, l'utopia, la vastità, la certezza che ci sono territori estetici infiniti da esplorare, e che l'arte può cambiare radicalmente la visione sulla cultura». Il genio di Hughes, che se ne è andato nel 2012, «un uomo titanico, ruvido, appassionato, dotato di una prosa propulsiva e di un acido senso dell'umorismo» (così Siri Hustvedt, pubblicata in Italia da Einaudi, che è anche l'editore del marito, Paul Auster), risuona in The Spectacle of Skill, una densa (sono 668 pagine) raccolta di scritti (stampa Knopf, ve la pigliate con 40 dollari), un incendio, in cui non si salva nessuno tranne il figlio, Danton, suicida nel 2001 («se ne è andato quando ho capito che mi amava davvero perché ero suo padre»), e che speriamo qualcuno (Adelphi è l'editore italiano) si degni di tradurre.

Come mai? Perché Hughes, creatura geniale, scomoda, corrosiva (evviva), «del tutto elitario, dal punto di vista culturale», che preferisce «il bene al male, il bello al brutto, l'articolato al modesto, l'esteticamente sviluppato al primitivo», ci insegna con buon senso e bello stile che «il compito principale di un critico è quello di distinguere ciò che è eccellente da ciò che non lo è». La cultura è a disposizione di tutti, ma non tutti sono colti né dotati di genio. «Non penso che gli stupidi, che le persone di cattive letture possano stare con i sapienti e con quelli pienamente alfabetizzati, tutto qui.

Ragion per cui, la maggior parte degli uomini non riveste alcuna importanza ai miei occhi, al di là dell'ovvia cortesia e dell'obbligo di rispettare i diritti umani». Hughes è il contraccettivo ai «corretti», una benedizione, l'antidoto al pattume della cultura buonista.

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