Roma e Tripoli mai state così vicine

Alberto Pasolini Zanelli

Forse non è stata una sorpresa che l’esplosione di fanatismo in corso nel mondo islamico investisse, prima o poi, anche l’Italia. Certamente non lo è che un nuovo «fuoco» delle violenze si sia localizzato in Libia, dove il dittatore Muammar Gheddafi (che pure è anch’egli un integralista islamico a forti tinte verde Profeta) è da anni sotto il tiro di Al Qaida e di altri gruppi estremisti. Non è improbabile, infine, che fra le due spine irritative delle violenze l’altro giorno a Bengasi ci sia un rapporto più che casuale.
Le relazioni fra Italia e Libia, che sono sempre state difficili dopo l’instaurazione della dittatura, hanno preso da alcuni anni una direzione nuova, più complessa e positiva. Non è, o non dovrebbe essere, un segreto per nessuno che il governo Berlusconi abbia «lavorato» piuttosto a fondo per aiutare, soprattutto psicologicamente, il governo di Tripoli a effettuare la sua svolta strategica, che non consiste soltanto nella rinuncia ai progetti nucleari ma anche in un più equilibrato atteggiamento nei confronti dell’Occidente in genere. Il presidente Bush ha citato più volte il ritrovato dialogo con Tripoli come uno dei più importanti effetti collaterali dell’impegno militare Usa in Irak; e tale affermazione, pur nel suo contesto in parte propagandistico, non è priva di fondamento. L’avere mostrato il bastone altrove ha permesso agli Usa di avanzare la carota in Libia, ottenendo molto di più con uno sforzo minimo. Quel che è meno noto è che quella carota in buona parte l’abbiamo cucinata noi. Berlusconi in persona ha condotto per anni una politica di iniziative di «recupero» di Gheddafi, certamente coordinate con quelle di Washington, ma certamente almeno in questo caso non subordinate.
Ogni riavvicinamento, o anche semplice avvicinamento, richiede una qualche sorta di mediazione, che il governo di Roma ha fornito con impegno, sensibilità e successo. Le numerose visite del nostro primo ministro a Tripoli e l’apparente cordialità degli incontri con Gheddafi non sono che l’aspetto più vistoso, che ricopre una realtà più solida: c’erano cose che Roma e Tripoli dovevano fare come premessa politica e psicologica al «disgelo» libico nei confronti di tutto l’Occidente. Ricucitura di vecchie lacerazioni bilaterali, ma anche iniziative come il progetto di Berlusconi di una mediazione libica per scongiurare la guerra in Irak, magari includendo un salvacondotto per Saddam Hussein per un pensionamento in Libia a patto che lasciasse pacificamente il potere a Bagdad.
Questa a grandi linee la strategia che si trova ora sotto attacco per un complesso di motivi non tutti correlati. A parte il comportamento poco ortodosso di Calderoli, è evidente la volontà di qualcuno di saltare sull’occasione per provocare una crisi di cui l’Italia è bersaglio ma forse non il principale.

Non è probabilmente neppure un caso che l’assalto alla rappresentanza diplomatica sia avvenuto a Bengasi, capitale della Cirenaica, che è, per antica tradizione che risale ai Senussi, il focolaio dell’estremismo fondamentalista.

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