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Buzzi: "Non ho speculato sui rom, meritavo una medaglia"

Questo e molto altro nel libro “Se questa è mafia”, in cui Salvatore Buzzi ripercorre il suo passato a Roma. Il lavoro è curato dal giornalista Stefano Liburdi

Buzzi: "Non ho speculato sui rom, meritavo una medaglia"

La Cassazione ha stabilito nel 2019 che Mafia Capitale non era mafia. Ha capovolto la sentenza d’appello sull'inchiesta “Mondo di mezzo” che aveva stabilito l’associazione mafiosa per Massimo Carminati e Salvatore Buzzi. Buzzi era stato condannato in secondo grado a 18 anni e 4 mesi. Dopo la decisione della Cassazione per l’altro condannato eccellente nell’inchiesta, l’ex Nar Massimo Carminati, era stato revocato il 41 bis, il regime di carcere duro. Poi la corte d’appello, dopo cinque anni di carcere, ha deciso che proprio Buzzi, una delle figure chiave dell’indagine, poteva andare agli arresti domiciliari. Il mese scorso, per farla breve, la procura generale della Corte d’appello di Roma ha presentato ricorso contro la sua scarcerazione.

È in questo quadro che va letto il libro rivelazione di questo personaggio controverso. Si chiama “Se questa è mafia”, è edito da Mincione e curato dal giornalista Stefano Liburdi. In queste pagine, ripercorre i tratti di tutta l’indagine che lo ha avuto al centro del mirino. E lui approfitta per togliersi qualche sassolino dalle scarpe. “Tra i tanti luoghi comuni che questa inchiesta mi ha cucito addosso c’è quello che Buzzi e Carminati abbiano speculato sulla pelle dei poveri nomadi”, scrive. Niente di più falso.

“Come più volte ho detto durante il dibattimento, mi aspettavo una medaglia per quel che avevo fatto e certamente tutto pensavo tranne che di essere accusato di questo”. Per la costruzione e la realizzazione del campo nomadi la procura non ha contestato nessun capo di accusa. Ha analizzato ai raggi x tutti gli atti: niente, tutto regolare.

Buzzi si sofferma poi su un altro punto chiave dell’inchiesta. I rapporti con la politica. Ce n’è per tutti da destra a sinistra. “Venerdì 28 novembre ero passato al teatro Quirino dove iniziava la conferenza di organizzazione del Pd romano, organizzata dal segretario Lionello Cosentino per rilanciare il partito cittadino che non si trovava proprio in sintonia col sindaco Marino”. Viste le dimensioni occupazionali che ormai aveva raggiunto la cooperativa, spesso Buzzi riceveva da tanti consiglieri segnalazioni per assunzioni o per l’erogazione di contributi ad associazioni o per lavori di utilità sociale da svolgere senza essere remunerati.

“È corruzione questa?”, si chiede. In queste pagine si sofferma ancora sui palazzi del potere. Sulla destra romana e sulla posizione di Gianni Alemanno. “Cosa incredibilmente sostenuta nel processo è che Alemanno fosse stato aiutato dalla 'ndrangheta per le elezioni europee del 2014 grazie ai miei contatti con i Mancuso. Alemanno del 2014 si era candidato alle elezioni europee con Fratelli d’Italia nella circoscrizione sud, che comprende anche la Calabria. Avendo rapporti con me da anni, mi chiamò per chiedermi un aiuto. Allora pensai a Giovanni e ad altri soci ex detenuti residenti al Sud. Chiamai Giovanni dicendo se poteva votare Alemanno, un aiuto a un candidato amico, che aveva anche conosciuto la durezza del carcere, senza avere nulla in cambio”.

Diede la sua disponibilità e Buzzi segnalò il suo nome alla segreteria di Alemanno che poi ha provveduto a chiamarlo per inviargli del materiale elettronico. Buzzi dedica ampio spazio alle accuse mosse ad Alemanno per i suoi presunti legami con la mafia calabrese. E per il suo successo elettorale nella regione. Alemanno, spiega, non fu eletto solo perché Fratelli d’Italia non riuscì ad avere il quorum e fu il primo dei non eletti. Ebbe complessivamente 44.831 voti di cui ben 1.095 nella provincia di Vibo Valentia.

Chi scrive il libro osserva come si fecero delle suggestioni nei confronti della Corte e della stampa: se Alemanno aveva preso 1.095 voti nella provincia di Vibo Valentia era perché Buzzi aveva contattato Giovanni Campennì, uomo contiguo alla potente cosca dei Mancuso di Limbadi in provincia di Vibo. Salvatore Buzzi, capo della cooperativa 29 giugno, condannato per corruzione nel processo denominato “Mafia Capitale”, parla così dei suoi trascorsi.

“In televisione ascoltavo lo sdegno dei tanti che avevano scoperto all’improvviso che c’era una grossa associazione mafiosa a Roma. Ringraziavano tanto Pignatone che li aveva liberati. Ecco, mi dicevo, di fronte a questa accusa, chi mi conosce da anni prenderà le mie difese e pensavo ai tanti esponenti del Pd o di Sel che avevano condiviso la crescita della cooperativa. Solo silenzio. A provare a difendermi dalle accuse di mafia solo Alemanno e Sgarbi per i politici. E per i commentatori Giuliano Ferrara, Massimo Bordin, Paolo Liguori e il grande Antonio Pennacchi.

Tutti gli altri schieratissimi con la tesi della procura, mentre gli esponenti politici a me vicini, tutti afoni”. Buzzi trova spazio anche per una riflessione politica. L’equiparazione della corruzione alla mafia è avvenuta con la legge 3 del 2019 portata avanti dal Movimento Cinque Stelle. Così dal 9 gennaio 2019 per i condannati per i reati contro la pubblica amministrazione non c’è più la possibilità di ottenere benefici penitenziari (prima vittima illustre è stato Formigoni, con lui in carcere, a 72 anni, l’Italia è stata più sicura?). E saranno permesse intercettazioni sempre più invasive e la competenza per i reati passa alla procura distrettuale.

Processualmente la corruzione è stata equiparata alla mafia.

“Noi - spiega Buzzi - siamo stati i laboratori in vitro dove è stato tentato questo esperimento, alla faccia del principio cardine del diritto: nessuna pena senza legge”. Questo libro verrà presentato l’8 marzo presso la sede del partito Radicale. E, forse, rappresenta il passo decisivo per fare chiarezza su un caso controverso avvenuto tra le strade e i Palazzi della capitale d'Italia.

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