Coronavirus

La "battaglia" dei tamponi dei volontari nelle rsa del Lazio

È una corsa contro il tempo quella delle Uscar, la task-force di medici e infermieri volontari che stanno intervenendo nelle rsa per bloccare la diffusione del virus

La "battaglia" dei tamponi dei volontari nelle rsa del Lazio

Erano solo un pugno di volontari, oggi si sono trasformati in un vero e proprio esercito. Un esercito di tute bianche, che si spostano ai quattro angoli della regione per dare la caccia al virus. È per questo che qualcuno li ha già ribattezzati "virus-hunters". Sono persone come Silvia Ciarlo, medico di 25 anni alle prime armi. Il suo tempo era tutto assorbito dagli studi per diventare neurochirurgo, finché un giorno non è arrivata la voglia di mettersi in gioco. "Sono un medico abilitato, ho pensato fosse uno spreco rimanere a casa con le mani in mano mentre tutti si stavano dando da fare", ci racconta. Luca Bartolomucci invece ha 59 anni ed è un medico della continuità assistenziale, uno che si è fatto le ossa lavorando di notte, sempre in emergenza, sempre con l'adrenalina addosso. "Si sceglie questa professione non per sfuggire alla malattia, ma per affrontarla e combatterla", racconta. È lo stesso idealismo che ha spinto Valentina Grimaldi, pediatra di 56 anni, ad abbandonare le routine ambulatoriale per entrare nella task-force. "Un po' di paura c'è - ammette - ma la paura ti salva la vita".

In realtà si chiamano Uscar, Unità speciali di continuità assistenziale regionale, ed hanno il compito di "fare fronte alle esigenze straordinarie ed urgenti derivanti dalla diffusione del virus". Si legge così nell'avviso pubblico diramato dalla Regione Lazio il 16 aprile. Sono parte integrante delle misure prese in contromano dopo lo scoppio dei focolai di Nerola, Fondi e Campagnano. Quando l'allarme case di riposo ha cominciato a risuonare forte anche nel Lazio. Non è bastato lo stop all'ingresso di parenti e visitatori a metterle al sicuro. Il virus è comunque riuscito ad insinuarsi, seminando contagi e decessi tra degenti ed operatori sanitari. Quei luoghi rimasti in penombra nelle prime fasi dell'emergenza, adesso, sono sotto la lente di ingrandimento delle procure, che hanno aperto fascicoli di indagine per fare luce sull'escalation dei cluster. Non si poteva più restare a guardare. E così centinaia di medici e infermieri hanno risposto all'appello.

Sono loro che in queste settimane stanno passando al setaccio le 207 strutture pubbliche e convenzionate del territorio. È una corsa contro il tempo. Una corsa per individuare il virus prima che possa uccidere ancora. Le coordinate variano di giorno in giorno, a seconda delle necessità. La task-force si muove sotto il coordinamento dell'Istituto nazionale per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani, dove gli operatori sanitari vengono formati a getto continuo. È qui che le nuove reclute prendono dimestichezza con equipaggiamento e procedure. Si addestrano ad eseguire tamponi di massa, ad essere veloci, efficienti, a vestirsi e svestirsi in sicurezza.

Il loro mentore è Stefano Marongiu, infermiere classe 1978, uno che ha guardato in faccia la morte. Per 28 giorni, Marongiu, ha lottato in un letto di ospedale contro un virus che ha un tasso di letalità più di venti volte superiore al coronavirus: l'ebola. Il contagio è avvenuto nel 2015, quando era impegnato in una missione in Sierra Leone al fianco di Emergency. Sa bene quanto sia importante soppesare ogni gesto. È un predicatore dell'accuratezza: "Necessaria per non inficiare il risultato diagnostico ed evitare contagi tra gli operatori sanitari". "Grazie al know-how dello Spallanzani - spiega - abbiamo la possibilità di intervenire in modo rapido e incisivo sul territorio, e non sviluppare contagi tra di noi, di essere protetti, consapevoli, sicuri".

La forza su cui possono contare le Uscar è di circa 800 unità. "La composizione delle squadre varia a seconda delle necessità, a partire da un minino di due unità, un medico e un infermiere", ci spiega Pier Luigi Bartoletti, medico di base e segretario romano della Fimmg Mmg. Lui è uno dei veterani del progetto, che è partito in via sperimentale a fine marzo. "In una settimana di lavoro abbiamo effettuato 1.400 tamponi, 1000 visite e 150 test sierologici, siamo i grossisti dell'emergenza", racconta. Lo scopo è quello di smaltire la mole di screening arretrati in vista della fase due. Il traguardo del 4 maggio è cruciale, e bisogna ripartire con il piede giusto. È arrivato il momento di pigiare sull'acceleratore.

"L'obiettivo è quello di entrare a regime per la ripartenza, garantendo i tamponi ai sospetti Covid non oltre le 48 ore dalla comparsa dei primi sintomi, perché abbiamo imparato che l'attesa equivale all'ospedalizzazione", spiega il segretario romano della Fimmg Mmg. Dichiarazioni che fanno il paio con quelle del Sindacato medici italiani (Smi) del Lazio, che ha scritto al governatore Nicola Zingaretti per denunciare "l'impossibilità per i nostri pazienti di poter avere accesso ai tamponi per la diagnosi di Covid". Insomma, quella raccolta dalle Uscar è una sfida difficile. È una lotta senza quartiere, che si combatte anche nelle case dei sospetti Covid e nelle strade con la modalità drive-in. In campo ci sono uomini e donne di tutte le età.

Hanno storie e percorsi professionali diversi ma sono animati dallo stesso senso di responsabilità.

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