Coronavirus

Ritardi e pochi tamponi nel Lazio, ecco la verità

Il Lazio è ultima nella classifica delle persone testate: solo 334 ogni 10mila abitanti. Secondo i medici di base solo il 15% delle richieste ha ottenuto un riscontro e scarseggiano ancora i dpi

Ritardi e pochi tamponi nel Lazio, ecco la verità

Non c'è solo l'affare delle "mascherine fantasma" a preoccupare il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti. Sì perché anche sul fronte dei tamponi c'è chi dice che non si è fatto abbastanza. Lo denuncia uno studio del Sindacato medici italiani (Smi) del Lazio. Il quadro che emerge è abbastanza inquietante: le "reiterate richieste" di sottoporre al tampone pazienti con sintomi correlabili all'infezione da Covid-19 sono rimaste perlopiù inevase.

La denuncia dei medici

Lo Smi Lazio scrive direttamente al governatore Nicola Zingaretti: "Rappresentiamo medici di varie specialità e portiamo alla sua attenzione l'impossibilità per i nostri pazienti di poter avere accesso ai tamponi per la diagnosi di Covid". Nel Lazio ci sono circa 5mila medici di famiglia che mediamente hanno fatto da 5 a 10 segnalazioni: nella migliore delle ipotesi, ne sono state processate appena il 15 per cento. Lo studio si basa su un campione di 21 medici di medicina generale, per un totale di 26.553 assistiti. Delle 160 segnalazioni inoltrate dai camici bianchi ai servizi di igiene e sanità pubblica delle varie aziende sanitarie locali, solo il 15 per cento ha ottenuto un riscontro. Significa che solo 25 pazienti sono stati presi in carico e, di questi, quelli effettivamente sottoposti a tampone sarebbero una minoranza. Insomma, sottolineano dallo Smi, "ad essere ottimisti, potrebbero essere appena 10mila i tamponi effettuati su richiesta dei medici di famiglia". E ancora: "Leggiamo che nel Lazio sono stati fatti circa 100mila tamponi. Questi avrebbero dato un riscontro di una bassa percentuale di positività (9 negativi su 10). Ci chiediamo quindi: a chi sono stati effettuati i circa 90 mila tamponi che i Mmg non hanno richiesto? E la bassa percentuale di positività si potrebbe spiegare con la circostanza che, forse, nell'esecuzione degli stessi non siano stati rispettati i criteri clinici, epidemiologici, o del semplice buon senso?".

I veri numeri dei tamponi nel Lazio

Ma cosa ci dicono i numeri? Ad uno sguardo superficiale si direbbe che il Lazio sia una delle regioni più virtuose dello Stivale. Nella classifica di chi ha effettuato più tamponi, quella guidata dal segretario del Partito Democratico si posiziona al sesto posto con 111.073 esami. Se però distinguiamo i tamponi eseguiti dai casi testati, fa notare YouTrend, il Lazio in realtà diventa fanalino coda. Si parla di appena 23.067 pazienti che, rapportati al numero della popolazione, significa 39 persone analizzate ogni 10mila abitanti. "Un livello significativamente inferiore alla penultima regione, la Campania, che - osservano da YouTrend - invece ha testato 62 persone per 10mila residenti". Per avere un’idea delle proporzioni, il Veneto, la regione che ha adottato per prima il metodo dei tamponi a tappeto, ha esaminato 334 casi ogni 10mila abitanti. Tanto che, nei giorni scorsi, era stata anche la sindaca di Roma, Virginia Raggi, a chiedere a Zingaretti "più tamponi, soprattutto per quelle professioni a contatto con il pubblico".

L'importanza di un tampone precoce

In queste settimane si è detto e scritto dello strazio vissuto da chi si è visto negare questo tipo di esame. Uno dei casi più noti è quello del ginecologo romano Edoardo Valli, il 106esimo medico morto per coronavirus in Italia. Lo scorso 14 marzo, Valli scriveva su Facebook: "Ho la febbre da tre giorni ma non mi fanno il tampone". In realtà, il tampone andrebbe fatto a 48 ore dall'insorgenza dei primi sintomi. Andare oltre significa esporre il paziente a rischi seri. "La malattia si divide in due fasi, nei primi cinque giorni si manifesta con sintomi leggeri, dopodiché nei soggetti più a rischio il quadro clinico precipita, per questo è necessario intervenire subito, spesso però le tempistiche si dilatano a dismisura", spiega Pier Luigi Bartoletti, segretario romano della Fimmg Mmg. Ed è proprio per cercare di ridurre il rischio di un peggioramento del quadro clinico che i medici di base hanno cominciato a trattare i sospetti Covid con Tachipirina e antibiotici, senza attendere l'esito del tampone: "Quando si è cominciato a capire che l'attesa equivaleva alla ospedalizzazione, ci siamo mossi e, in presenza di sintomatologia sospetta, abbiamo iniziato a trattare anche senza diagnosi". "Purtroppo non è stato dato il giusto ruolo alla medicina del territorio - gli fa eco Ermanno De Fazi, vicesegretario regionale dello Smi Lazio - la priorità è stata quella di intensificare i reparti di terapia intensiva senza considerare che una parte dell'epidemia poteva essere gestita sul territorio, pensare di centralizzare tutto a livello aziendale ha determinato un sovraccarico di attività per il personale". Una diagnosi tempestiva, spiegano i medici, "avrebbe ridotto l'accentramento e lo sviluppo dei casi".

Il perché dei ritardi

Bartoletti non ha dubbi. Gira che ti rigira si ritorna sempre lì, ai dispositivi di protezione individuale. O meglio, alla loro carenza. "Per fare un tampone a un sospetto Covid bisogna prendere il personale sanitario, mettergli addosso tutti i dpi che andranno sostituiti al termine di ogni accesso domiciliare", premette. "Ma se io ho 100 medici e 20 tute, di fatto, è come se avessi 20 medici", spiega il dottore. Ecco il perché dei ritardi e della incredibile mole di analisi che si sono accumulate. Ci sono voluti mesi prima che si adottasse "un metodo più razionale" con l'introduzione delle Unità speciali di continuità assistenziale regionale (Uscar), ovvero delle task-force di medici e infermieri volontari che eseguono tamponi, effettuano visite e prescrivono terapie, tutto rigorosamente in modalità drive-in. E non solo, in questi giorni le unità mobili sono impegnate anche nelle Rsa del territorio. "È un metodo che possiamo definire industriale, perché permette di azzerare lo spreco di dpi e smaltire i tamponi arretrati in vista della fase due", spiega Bartoletti. L'iniziativa regionale, però, è partita solo l'8 aprile, con notevole ritardo rispetto alla normativa nazionale che prevedeva la unità speciali già nel decreto dell'8 marzo. "Probabilmente si sarebbe dovuto agire con maggiore tempismo anche in questa occasione, le unità speciali sarebbero state fondamentali anche per gestire i pazienti nelle Rsa, adesso invece si va nelle residenze dove c'è già un'elevata concentrazione di casi", annota De Fazi.

Lo scontro sui laboratori privati

Per ampliare la fetta di cittadinanza da testare in modo preventivo, ad inizio aprile, si era fatta avanti Uninidustria con una "richiesta urgente". Nella missiva inviata alla Regione Lazio venivano segnalati una serie di laboratori privati accreditati pronti a mettere a disposizione le proprie strutture "per eseguire tamponi e test sierologici ai cittadini". Dai vertici dell'ente locale però non arriva il via libera. La questione è finita anche al centro della querelle tra la clinica San Raffaele di Rocca di Papa, dove è scoppiato uno dei focolai di Covid del Lazio, e l'assessorato alla Sanità. Il presidente del gruppo, Carlo Trivelli, infatti, indicava proprio il divieto di testare autonomamente e in modo preventivo pazienti e operatori sanitari come una delle cause della diffusione del virus tra gli anziani ricoverati nella struttura.

Le polemiche

La risposta negativa dell'assessore Alessio D'Amato, che puntava il dito contro i "prezzi esorbitanti" proposti da alcune strutture, ha fatto discutere anche a via della Pisana. "Per risparmiare 70 euro – attaccava Antonello Aurigemma, consigliere di Fratelli d’Italia – si preferisce spenderne 1.200 al giorno per ricoverare i pazienti in terapia intensiva". Già ad inizio aprile, ricostruiva Aurigemma proprio su questo giornale, le Rsa erano in allarme "per la carenza di diagnosi su ospiti e operatori". Tanto che, incalza oggi il consigliere, la "stretta sulle case di cura è arrivata soltanto il 18 aprile, quando erano già scoppiati i casi di Nerola, Contigliano e Rocca di Papa". "Segno evidente – aggiunge – che prima non si è fatto abbastanza per evitare scenari di questo tipo". E a far discutere ora sono anche i test sierologici dedicati a medici e forze dell’ordine. Non solo non sarebbero ancora arrivati, ma quelli acquistati, come abbiamo scritto anche qui, sarebbero incompleti. Ovvero, traccerebbero soltanto le immunoglobuline G, quelle che indicano gli anticorpi sviluppati in seguito alla malattia. Insomma, ci direbbero soltanto se è stato contratto il virus in passato ma non ci darebbero informazioni sull’attuale positività di chi si sottopone al test.

Una notizia fondamentale per individuare i pazienti asintomatici, al fine di isolarli per evitare la diffusione del contagio, ed iniziare tempestivamente le cure.

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