Cultura e Spettacoli

Romain Gary, tragica avventura di un figlio di parola

«La promessa dell’alba» dell’autore francese morto suicida nel 1980: uno dei massimi tributi scritti da un uomo a sua madre

«C’è prima di tutti Taboche, il dio della stupidità... C’è Merzavka, il dio delle verità assolute... C’è Filoche, il dio della meschinità... Vi sono anche altri dei più misteriosi e più loschi, più insidiosi e nascosti... Mia madre li conosceva bene: me ne parlava spesso nella mia cameretta, stringendomi al petto e abbassando la voce...». Romain Gary (1914-80) ricorda così, nell’autobiografico romanzo La promessa dell’alba (Neri Pozza, pagg. 298, euro 14), la sua melanconica fanciullezza dissipata nella tetra enclave polacca di Wilno. Qui, nel tempo sospeso dei primi anni Venti, il piccolo Kacev (il cognome originario di Gary) e l’apprensiva madre, «un’attrice di scarsa fortuna» ma dall’indole indomita vivevano un’esistenza provvisoria favoleggiando di un luogo - la mitica Francia con la sua cultura - ch’era meta predestinata, l’alfa e insieme l’omega d’ogni loro più temerario desiderio o sogno di rigenerazione.
E tanta è l’ansia, la premonizione di un simile riscatto che presto, negli incipienti anni Trenta, l’adolescente Romain e l’incombente madre approdano a Nizza, nel clima neanche troppo accogliente d’una Francia scossa da allarmanti sommovimenti sociali ed eventi politici. La volitiva madre di Romain, peraltro, non si perde d’animo e, anzi, fidando nel suo trascinante sogno di divenire, costi quel che costi, lei e il suo rampollo proprio «il sale della terra di Francia» prefigura e architetta senza sosta incalzanti «canzoni di gesta» per il suo portentoso ragazzo, presto lanciato nell’agone della guerra, della diplomazia con esiti del tutto trionfali.
La promessa dell’alba costituisce, in definitiva, una sorta di arabesca decalcomania dell’effettiva avventura umana di Romain Gary (figlio poco amato del celebre divo del cinema muto Ivan Mosjoukine), prima valoroso combattente antinazista al fianco di De Gaulle quindi romanziere di accertato talento con Education européenne, Les racines du ciel (Premio Goncourt 1956) e ancora La vita davanti a sé (scritto con lo pseudonimo Emile Ajar) e infine diplomatico di rango negli Stati Uniti e altrove. Una vita fitta d’ogni slancio generoso, allietata da fausti, seppur caduchi eventi (come il matrimonio con l’attrice Jean Seberg, prematuramente schiantata dalla depressione), tribolata soprattutto dalla precipitosa corsa in avanti, fino a essere risucchiato anch’egli da un’inguaribile solitudine culminata, nel 1980, nel suicidio.
In un dramma tanto fondo e irrimediabile, La promessa dell’alba viene a essere, anche al di là dell’oggettivo, esaltante pregio d’una scrittura sapiente, sempre ispirata (grazie anche alla partecipe traduzione d’uno scrittore sperimentato come Marcello Venturi), l’epicedio altissimo per la madre prodiga di se stessa fin oltre la morte.

E giustamente Newsweek ha salutato La promessa dell’alba come «uno dei più straordinari tributi mai scritti da un uomo a sua madre».

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