«Romanzo criminale» sconcerta la Germania

Maurizio Cabona

da Berlino

È stato di pura cortesia l’applauso per l’«impegno civile» - una volta si diceva così - di Romanzo criminale di Michele Placido, in concorso ieri al Festival di Berlino. Buona accoglienza, visto che solo Slumming e The Road to Guantanamo, nei giorni scorsi, avevano avuto qualcosa più di un silenzio imbarazzato. «Troppo lungo», dice però di Romanzo criminale chi è stato stremato dalle sue due ore e mezza. In effetti - dopo una settimana di Berlinale, con tre film al dì solo nella rassegna principale - i critici attendono il verdetto di sabato solo come il prologo al ritorno a casa.
In più, Romanzo criminale in Italia prende tutti i premi possibili (solo Stefano Accorsi non ne prende uno), ma resta un «poliziottesco» contraddittorio con le premesse del genere, verboso ed estenuante com’è. Ispirato al romanzo omonimo di Gianfranco De Cataldo (Einaudi), un magistrato, il film di Placido attribuisce infatti ogni delitto di un quarto di secolo fa - assassinio di Moro, ferimento del Papa, bomba di Bologna, ecc. - non a servizi segreti stranieri, ma alla banda della Magliana.
A Berlino l’eco di tante gesta arriva nuova, così c’è stato stupore della stampa nell’apprendere dal film che questa congrega di tagliagole romani - interpretati da Kim Rossi Stuart, Pierfrancesco Favino, Claudio Santamaria (giunti per l’occasione) - era il braccio armato dei servizi segreti italiani. Ma devono essere giornalisti che vedono pochi film, se non hanno notato che il ruolo attribuito sia dal libro di De Cataldo, sia dal film di Placido alla banda della Magliana è analogo a quello attribuito dal libro di Jonas (Vendetta!, Rizzoli) e dal film di Spielberg che vi si ispira, Munich, alla banda «di Papà», interpretato da Michel Lonsdale.
Oltre all’analogia di azione, c’è la sincronia. Tutto ciò accadeva negli anni Settanta, l’ultimo periodo in cui la Guerra fredda, ovvero la terza guerra mondiale, veniva combattuta ad armi relativamente pari. Ma De Cataldo e Placido frequentano poco e male i risvolti della politica internazionale, tanto meno colgono la storia che non sia quella - fasulla - in chiave ideologica. E così lo sceneggiatore Sandro Petraglia, anche lui giunto a Berlino. A spostare l’attenzione e a toglierli d’imbarazzo è stata la domanda tipica da «Sindrome di Berlino», per la quale ogni fattaccio italiano è visto qui come opera di Berlusconi: «Ma perché nel vostro film non si parla anche di lui?».
Invece di ridere, Petraglia ha approfittato dell’occasione per tornare sull’allusione di Romanzo criminale (il film) a ciò che avrebbe seguito la Guerra fredda, cioè l’«epoca dei furfanti e della mediocrità, qualcosa di cialtronesco». Severo, Petraglia ha mormorato sibillino: «È lecito pensare che ciò significhi la politica italiana attuale».


Adempiuto il dovere collettivo, nello psicodramma da campagna elettorale in cui si agita gran parte del cinema italiano, l’incontro con la stampa internazionale (ma due terzi dei presenti erano italiani) s’è chiuso con lo sfoggio patriottico di Placido, fiero del «nostro cinema d’impegno civile, sul modello di Francesco Rosi, dal quale anche gli americani hanno imparato». È simpatico questo attore e regista quando applica al suo lavoro quel che, da ragazzo, imparava alla Giovane Italia.

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