Un romanzo-memoria per imparare che in noi vivono tutti i nostri antenati

L’ultima fatica, scritta in corsa contro la malattia, per narrare un’epopea che attraversa i secoli

Oriana Fallaci è diventata un mito del giornalismo e del romanzo per il gusto delle storie, il gusto di raccontare le vite altrui per vederci riflessa la propria, e viceversa.
Il suo romanzo postumo Un cappello pieno di ciliege, che arriverà in libreria il 30 luglio per Rizzoli (l’editore storico della scrittrice sin dagli anni ’60), è la summa ultima di questo gusto, di questa passione. Un testo la cui stesura decennale - interrotta dalla malattia dell’autrice che ha consegnato al nipote Edoardo Perazzi il mandato di pubblicarlo dopo la sua morte - è passata attraverso un lavorio infinito, fatto di pagine e pagine battute e ribattute sulla vecchia Olivetti «Lettera 32», bianchetto, cancellature, note a margine e riscritture incollate sugli errata con lo scotch. Il risultato è una saga che ricollega l’esistenza di un singolo individuo, Oriana, alle esistenze dei suoi avi. Di coloro che l’hanno preceduta e senza i quali lei non sarebbe. A darne conto basta l’incipit: «Nel 1773, quando Pietro Leopoldo d’Asburgo-Lorena era Granduca di Toscana e sua sorella Maria Antonietta regina di Francia, corsi il rischio più atroce che possa capitare a chi ama la vita e pur di viverla è pronto a subirne tutte le catastrofiche conseguenze: il rischio di non nascere».
Insomma una discesa nel maelström della storia familiare per dare un senso al presente, un modo di guardare il proprio ombelico, il proprio Dna e trasformarlo in chiave di accesso al mistero di coincidenze che fa in modo che ciascuno di noi sia ciò che è.
Così in questo romanzo-memoria, che inizia nel 1773 e finisce nel 1889, compaiono personaggi piccoli e grandi che sono Oriana o meglio che «saranno» Oriana. Ecco allora il lontano avo Carlo Fallaci, prima miscredente e ribelle, poi terziario francescano e contadino, infine marito amorevole della bella Caterina Zani. Una donna, discendente di «eretica», e dalla lingua mordace che resiste a Napoleone e ai francesi così come Oriana e la sua famiglia resisteranno secoli dopo ai nazisti (nel romanzo urla a muso duro al generale francese: «Accident’a te e alla troia che t’ha partorito...». Ecco Francesco Launaro (bisnonno del nonno materno di Oriana) che per vendicare la morte del padre sgozza venti musulmani durante l’attacco al porto di Algeri, oppure sua moglie Montserrat che porta in famiglia la predisposizione genetica al «mal dolent», al cancro. Una malattia che ha imperversato per generazioni e contro cui la scrittrice, prima di soccombere, ha tenacemente lottato.
Sono personaggi nati dagli echi dei racconti dei nonni poi inseguiti ricostruendo i fatti a partire dai catasti, dai mastri anagrafici. Una studio furioso che però non ha rinnegato i diritti del mito, della fantasia. Come riguardo al leggendario viaggio della bisnonna Anastasìa Ferrier nel Far West: «Vero, non vero? D’istinto ci credo».

E tra fantasia e realtà, tra frasi folgoranti e resoconto storico messo assieme «per accumulo», tra l’autobiografismo e la capacità di astrarre, tra la ruvidezza del non finito e la chicca, Un cappello pieno di ciliege è una splendida testimonianza, sempre in bilico tra il fluire della vita e l’incombere della morte. Una morte odiata ma non temuta, esorcizzata col mito: «Di Anastasìa Ferrier, leggenda vissuta senza un certificato di nascita, non esiste nemmeno un certificato di morte».

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