Dopo I figli degli uomini, interpretato con discreto successo nel 2006, i figli delle donne. All’alba dei cinquant’anni si conferma icona lesbica Julianne Moore, che ieri ha lanciato The Kids are all right (I ragazzi stanno bene, a febbraio distribuito da Lucky Red), film squisitamente politico, dove lei, rossa, longilinea e lentigginosa, divide tetto e letto con un’altra lei, interpretata da Annette Bening, una che nella vita vera s’è accaparrata un fior di maschio: Warren Beatty (laddove neanche Madonna era riuscita a impalmare lo scapolo d’oro di Hollywood e fratello di Shirley McLaine). Non è che Julianne, amata soprattutto dai cinefili per la sua verve drammatica (il Festival le ha assegnato il premio «Marc’Aurelio»), sia da meno della partner, quanto a gusti privati. Con due ex-mariti e un coniuge attuale, il regista Bart Freundlich (autore dell’agghiacciante Uomini&Donne - Tutti dovrebbero venire… almeno una volta!, 2005), anche padre dei loro due figli Caleb (12 anni) e Liv (8), l’unica star della moscia giornata festivaliera numero sei è in quota lesbo-chic onde ottenere un’immediata riconoscibilità all’interno del sistema hollywoodiano al collasso. Dove, comunque, la lobby LGBT fa sentire la sua influenza. Altri titoli, in cui la Moore è finocchia? Si va da The Hours (2003, miglior attrice a Berlino) al recente Chloe - Tra seduzione e inganno (con Amanda Seyfried quale oggetto del desiderio), fino a questa commedia drammatica dell’omosessuale dichiarata Lisa Cholodenko. La quale è partita dalla sua storia personale, per trasporla sullo schermo para para. «Perché mi capitano tutti questi ruoli? Non mi piace suddividere gli esseri umani in categorie. Dividere gli altri in base a razza, religione, sesso non fa per me. Ciò che cambia davvero le cose è trovarsi in contatto con i “diversi”: se li conosci, li capisci. E, poi, il futuro sarà gay», afferma apodittica la Moore. Salvo, poi, discriminare il premier Berlusconi, reo di eterosessualità conclamata. Per non chiudersi troppo nel ghetto omo-pop, la scaltra Moore ha insistito molto sul concetto di famiglia e di matrimonio. Perché nel film, ambientato in California, Nic (Annette Bening) e Jules (la Moore) formano un’altoborghese coppia di fatto, con casa, cane e due figli adolescenti: Joni (dalla cantante Joni Mitchell) e Laser (!), nati da inseminazione non meglio identificata. Il fatto è che quando Joni vuol conoscere l’ignoto donatore di sperma, che poi sarebbe il suo papà, ha inizio il giro delle banche del seme. Bingo! Ecco trovato papà Paul (Mark Ruffalo), un oste che però non vuole saperne, di figli. Naturalmente, l’uomo porterà scompiglio nel tran-tran delle due, ma infine happy end. I figli capiranno, le mamme vivranno felici e contente… «Questo film è una meditazione su che cosa significhi essere una famiglia e che cos’è un matrimonio.
Due mamme sono due genitori come gli altri. I figli, infatti, hanno bisogno di due persone che li amino e che si occupino di loro», semplifica l’attrice, citando le sue esperienze di madre, pronta a giocare con i suoi due figli a «Chi sposerò da grande?». «È un gioco da tavolo che facciamo spesso: sta ai miei figli scegliere di sposare un uomo, o una donna, non importa. Nell’amore c’è molta elasticità. E quando s’invecchia, ci si rende conto che c’è spazio per l’ambiguità». Va da sé che tale orientamento libertario vale solo per alcuni, non per tutti.
Siamo, come al solito negli ultimi vent’anni, dalle parti del più stolido conformismo sessuale, laddove vien fatto passare per norma ciò che norma non è. Almeno nell’Occidente cristiano. «Qualsiasi scelta si faccia, una famiglia è una famiglia. La famiglia è il tempo che le dedichi», filosofeggia Julianne. Play gay e cammina, insomma.
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