Pier Augusto Stagi
«Oggi le strade non sono più quelle di Coppi: sono molto peggio». Francesco Moser lo dice sul serio, e ha pure ragione. Le strade della Roubaix, lastricate di pavé, sono le uniche che anno dopo anno peggiorano. «Pietre spuntate, aguzze come colli di bottiglia, che anno dopo anno si spuntano, si scostano, si rompono, rendendo queste vere e proprie mulattiere in mezzo ai campi al limite della sopportazione, della praticabilità».
I loro nomi appartengono alla leggenda, quello di Francesco Moser alla storia della Parigi-Roubaix. Joseph Fisher, il primo vincitore. Maurice Garin, il primo a fare la doppietta. La prima tripletta consecutiva arriva da Octave Lapize, all'inizio del Secolo; l'ultima è di Francesco Moser, che dal '78 all'80 ha domato la corsa che più di ogni altra ha contribuito a costruire la sua fama e la sua credibilità di corridore ciclista. Prima di lui altri italiani come Jules Rossi, Serse e Fausto Coppi, Antonio Bevilacqua e poi Felice Gimondi. Dopo di lui, per due volte, Franco Ballerini e poi Andrea Tafi, l'ultimo a regalarsi quella pietra di porfido di poco valore, che per un ciclista vale una carriera. È «l'inferno del nord», con quei poveri diavoli che tra pavé, polvere e fango, vanno alla ricerca di un pugno di gloria. «Non c'è grandezza senza dolore», ha detto Sofocle. Se è per questo, la Roubaix rende i corridori grandissimi: il primo come l'ultimo. «Alla fine ti fanno male pure i denti», racconta Francesco Moser, che aggiunge: «Solo chi ama profondamente il ciclismo può capire questa corsa».
Oggi si corre l'edizione numero 104. Due gli elementi de «L'enfer du Nord»: «la boue» e «le pavé», per dirla con i francesi. Il fango e la pietra. Di pietre ce ne sono tantissime: ventisette i settori, per un totale di 52,7 chilometri, disseminati su 259 di gara complessiva. Corsa piatta, difficile da scalare. Ci vuole coraggio e cuore, intelligenza e incoscienza: per questo non tutti l'hanno amata; per questo e per altro oggi non tutti la amano. Da Girardengo ad Anquetil, per arrivare a Hinault o Freire, questa corsa l'hanno odiata. Il bretone, uno dei più forti corridori di tutti i tempi, l'ha sempre considerata una «cochonnerie», una porcheria. L'ha corsa, l'ha pure vinta una volta, e alla fine ha pure sentenziato: «Mai più!». «La Roubaix è una sfida a tutte le leggi di gravità - dice sempre Moser -: si corre su un filo invisibile, che da un momento all'altro potrebbe spezzarsi. I corridori sono equilibristi. La caduta fa parte di questa gara, come le forature. Il segreto sta nellessere capaci di accelerare sia allentrata che alluscita di ogni settore di pavé: bisogna fare delle vere e proprie volate, per conquistare le posizioni migliori e chi le trova sceglie meglio le traiettorie. Non è una gara alla portata di chiunque: lì ho imparato a tirar fuori energie nascoste. Le doti per vincerla: velocità, fondo e resistenza. E poi tanto, tanto coraggio».
Torna dopo un anno la Foresta di Aremberg, crocevia di storie, emozioni, glorie e dolori. Lo sa bene Johan Museeuw, che domò questa corsa tre volte e per altrettante volte, come un Macbeth, ha guardato la morte negli occhi dopo una caduta nella Foresta. «È come entrare in un enorme imbuto, nel quale è riposto un invisibile setaccio - dice Moser -, chi ne esce in sella alla propria bicicletta ha chances da vittoria. Per gli altri sarà per la prossima volta. Nella Foresta non si vince la Roubaix, ma sicuramente la si può perdere».
Ci riproverà Tom Boonen, che vinse un anno fa Fiandre, Roubaix e Mondiale. Quest'anno ha rivinto la classica fiamminga e sogna il bis sulle strade lastricate di pavé per accrescere la propria fama di baby prodigio. «Può farcela, è nato per questo tipo di corse - spiega il trentino -.
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