Michele Anselmi
da Roma
Domanda: come fa un giovane regista scozzese, autore di film sconosciuti ai più, a mettere insieme un cast nel quale spiccano i nomi di Bruce Willis, Morgan Freeman, Josh Hartnett e Ben Kingsley? Risposta: «O li paghi secondo le regole del mercato. O hai un ottimo copione. Noi avevamo un ottimo copione». Elementare, Watson. Paul McGuigan (si pronuncia Mecguighen) è volato a Roma dalla natìa Glasgow, dove si fece le ossa prima come fotografo, poi come regista di spot e documentari sul calcio, per promuovere il suo quinto lungometraggio, quel Slevin-Patto criminale che uscirà il 25 agosto, in oltre trecento copie, distribuito dalla Moviemax dopo varie anteprime estive. Non si può dire che il film sia stato un successone negli Usa: «solo» 25 milioni di dollari al botteghino; e però in tutto il Regno Unito ha fatto sfracelli, piazzandosi al primo posto nella classifica dei dvd più venduti. Sicché McGuigan sta ricevendo unofferta dietro laltra: tra qualche mese darà il primo ciak a Four Knights, un action movie ambientato nel Medioevo (per la precisione nel 1170), col fedele amico Paul Bettany, già killer col cilicio per conto dellOpus Dei nel Codice da Vinci; poi si dedicherà a The Equalizer, una variazione sul tema del Giustiziere della notte.
Slevin-Patto criminale non lha scritto lui, bensì lemergente sceneggiatore Jason Smilovic, uno che si diverte a disseminare lintreccio di citazioni cinematografiche sul tema dellidentità (Intrigo internazionale). Però il regista, da figlio della terra del kilt, ha inserito nei dialoghi un affettuoso omaggio a Sean Connery, «lunico Bond da ricordare». La storia, ingarbugliata ingegnosamente in modo che lo spettatore non vi si raccapezzi fino al sottofinale (ma se state attenti al flashback qualcosa si capisce), ruota attorno alle disavventure di un bel giovanotto, Slevin, finito per uno scambio di persona in un regolamento di conti tra due potenti capi criminali. Siamo a New York. Da un lato cè il Boss (Freeman), dallaltro il Rabbino (Kingsley): ciascuno vuole farla pagare allaltro uccidendone il figlio, e intanto Slevin, innamoratosi di una frizzante cinesina (Lucy Liu) che lavora alla Morgue, deve vedersela anche con un killer professionista incarnato da Willis. Il giovanotto, col naso rotto per un pugno dallinizio alla fine, sembra la vittima predestinata, il «fesso perfetto». Ma sarà proprio così?
Spira unaria da Soliti sospetti nella tessitura bizzarra e sfuggente dellintreccio e anche il Tarantino di Pulp Fiction fa capolino qua e là: dialoghi filosofeggianti, sicari in coppia, arredi kitsch, freddure, tanto sangue. Ma guai a dirlo allinteressato. «Francamente non ne posso più di spiegare che non sono quelli i miei modelli. I soliti sospetti lo trovo un film ordinario, con leccezione degli ultimi dieci minuti. Tarantino mi piace, però mi sembra un po troppo autoreferenziale, si prende terribilmente sul serio», scandisce McGuigan. Il quale, pur riconoscendo echi scespiriani e meditazioni esistenziali, spiega che i suoi personaggi sono «larger than life», esagerati. Seri e buffi allo stesso tempo. «Il gangster dei nostri giorni non veste e non satteggia più come James Cagney in Nemico pubblico. Così ci siamo divertiti a giocare con gli stereotipi del genere, sfotticchiando neri, ebrei, gay... Tutti, tranne gli scozzesi (e ride, ndr)». In effetti, di malavitosi il regista si intende. Fu proprio il suo fiammeggiante Gangster number 1, del 2000, con Paul Bettany e Malcolm McDowell, a farlo notare da Willis, evidentemente alla ricerca di nuovi spunti e stimoli. «Bruce mi chiamò al telefono, per dirmi semplicemente: Paul, ti va di lavorare insieme?. Sono cose che non capitano tutti i giorni». Leroe sbruffone della serie Die Hard avrebbe partecipato a Slevin con lentusiasmo del principiante: «Mi chiedeva consigli su tutto, dalle scarpe al parrucchino, è venuto sul set anche quando non doveva recitare».
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