Parlare di leoni a Londra nel 1873 significa riferirsi ai giovani di bellaspetto che deliziano le signore nei salotti della città. Parlare di leoni a Milano vuol dire, invece, alludere a bestia a quattro zampe detta normalmente «re della foresta» con criniera, coda per farsi passare per bestia feroce, simbolo anche del coraggio. Lo scultore Giuseppe Grandi nato a Ganna, in provincia di Varese nel 1843, che da poco ha inaugurato la statua di Cesare Beccaria mettendo in bella evidenza il suo valore di artista e la meticolosità con cui opera, quando vince il concorso per il monumento alle Cinque Giornate, nel 1881, si mette all'opera con una serietà e una devozione incredibili. L'elaborazione del progetto definitivo e la lavorazione delle singole parti del monumento si prendono gran parte dei tredici anni che restano a Giuseppe Grandi che muore pochi mesi prima dell'inaugurazione.
Il monumento si presenta innovativo rispetto all'iconografia tradizionale della celebrazione. Così lo descrive Carlo Romussi: «il monumento che pesa 826 quintali, è alto 22 metri. Un piano smussato di pietra grigia di Biella porta a cinque gradini di granito di Svezia, rosso bruno e così levigato che vi si specchiano i visi; al di sopra di questo sorge il plinto di bronzo color verde antico e più in su ancora l'obelisco attorno al quale si aggira la fantastica ridda delle figure che, nella più perfetta unione delle forme e del pensiero, dell'ideale e del vero, narrano nel bronzo l'epico poema».
Grandi comunica all'Accademia di Brera di non desiderare un modello di cartapesta o un «qualche cane barbone» ma di volere un modello vivo. Le tournée di circhi non sono frequenti a Milano, lo zoo non esiste e a Brera autorizzano Grandi all'acquisto del leone per modello purché provveda lui direttamente. Effettua un'inserzione sul Giornale di Amburgo e gli rispondono da un circo in liquidazione che sono disposti a vendergli il leone Borleo. La stampa quotidiana si impadronisce dell'argomento e pur risparmiando al lettore la scena dell'arrivo del leone per ferrovia in gabbia puzzolente allo scalo merci, annuncia lo sciopero immediato dei facchini che si rifiutano di scaricare la belva.
L'intervento dell'ufficiale di sanità accompagnato dai messi civici, dai sorveglianti urbani in tenuta estiva e da ufficiali della Guardia daziaria, riesce a ripristinare l'ordine. Grandi, però nello studio tiene anche un'aquila, due serpenti, dei pappagalli di facili costumi nonché di blasfema loquela e sette scimmie assolutamente scorrette. Per fortuna lo studio di Grandi è in periferia (l'attuale via Corridoni ndr) e in mezzo ai prati il ruggito del Borleo si può disperdere.
Ruggito? Il mite animale vuoi per lunga dimestichezza col genere umano dopo tanti anni di onorato servizio al circo, vuoi per la sua naturale indole, ma soprattutto per letà veneranda, ha più del domestico micione che della belva feroce e... non ruggisce. Ruggisci! Gli intima Giuseppe Grandi con carboncino e foglio in mano. Niente. E anche un magutt che è sul posto, chiamato con l'antico nome che appariva sugli annali della Veneranda Fabbrica del Duomo - magister comacinus... semplificato in mag. ut supra (come sopra), da cui magutt - non riesce a smuovere il Borleo. Sei una bestia! urla il Grandi ma il leone non fa una piega anche perché non avrebbe nulla da eccepire e il Grandi, al colmo del sacro furore per l'arte, lancia sulla mite belva tutto quello che gli capita fra le mani: pennelli, creta, pezzi di carta, gesso. Tutta roba che il Borleo mangia regolarmente digerendo beatamente per tutto il giorno. Effetto strano, ma prevedibile: dopo quindici giorni il leone non è inferocito ma... stitico. Il settimanale Guerin Meschino, segue con «sofferta partecipazione» la vicenda. La bestia rischia di morire per occlusione intestinale.
E il Grandi riunisce gli amici della scapigliatura milanese Emilio Praga, Carlo Dossi e Luigi Conconi per tenere un consiglio di famiglia in quanto se si non si vuol vedere il leone morto occorre praticargli un serviziale. «Dopo lunghe ed elaborate ricerche, bozzetto del marchingegno, consigli di esperti, parere di amici ed estimatori, viene costruita una opportuna macchina: un tubo di peltro lungo alcuni metri, un imbuto, un mantice da fabbro ferraio per pompare acqua e sapone, una serie di assi di legno. E si procede! Alcuni immobilizzano il leone mediante assi introdotte nella gabbia; i più ardimentosi gli tengono ben salda la coda. Il varo del clistere va di diritto a Grandi che introduce nel di dietro del leone la canna e solennemente dà il via. Si inizia a pompare! Il leone è tranquillo ma al momento fatale lancia un ruggito da far tremare i vetri mettendo tutti in fuga e squassando la gabbia. Fermo e incrollabile sta il Grandi che con matita e fogli alla mano schizza il profilo del «suo leone finalmente feroce».
Così una disperazione al punto giusto, un povero leone, uno scultore dal vero e qualche nuovo modo di esprimersi fanno un tutt'uno: la grande opera che adorna di sé la piazza delle Cinque Giornate di Milano a Porta Vittoria è compiuta.
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