La Russa: «Miotto è stato ucciso da un gruppo di insorti»

nostro inviato a Herat (Afghanistan)

«Mi hanno colpito». Il 31 dicembre, su una delle due torrette dell'avamposto "Snow", nel Gulistan, l'alpino di Thiene Matteo Miotto pronuncia le sue ultime parole al soldato che è accovacciato accanto a lui. Era salito fin lassù per dargli una mano a contrastare l'attacco dei ribelli afgani che avevano aperto il fuoco contro il "cop", il piccolo "combat-outpost" piazzato strategicamente nella valle del fiume Golestan, non lontano dal confine con la provincia di Helmand, roccaforte dei talebani e teatro di aspri combattimenti. Un proiettile ha raggiunto il 24enne caporalmaggiore del VII reggimento della brigata Julia alla spalla, mentre tornava a ripararsi dopo aver risposto al fuoco.
Ma a ucciderlo non sarebbe stata l'azione isolata di un cecchino. La dinamica dello scontro che ha mietuto l'ultima vittima del 2010 per il contingente italiano in Afghanistan è più complessa rispetto a quella trapelata finora. Ed è proprio Ignazio La Russa, nella sala briefing di Camp Arena, la base Isaf di Herat dove il ministro della Difesa è atterrato ieri sera, a raccontare più nel dettaglio come sono andate le cose in quell'avamposto, l'ultimo dell'anno. La piccola base è stata attaccata con colpi d'arma da fuoco, diretti contro entrambe le torrette, provenienti da alcune grotte vicine. Gli "insurgent" erano probabilmente in gruppo. Gli alpini hanno risposto al fuoco con fucili mitragliatori, e lo scontro è andato avanti per un bel po', circa mezz'ora secondo il generale Marcello Bellacicco, che guida le forze Isaf di terra nell'Afghanistan occidentale. Miotto in quel momento non era di guardia, ma di "pronto impiego", ossia con l'ordine di intervenire in supporto dei compagni in caso di necessità. E infatti ha raggiunto uno degli alpini nelle torrette per alternarsi con lui nel fuoco di risposta. Proprio dopo aver sparato, e mentre si chinava per ripararsi, l'alpino di Thiene è stato ucciso da un colpo che è entrato nella spalla sinistra, vicino al collo, ed è uscito dalla schiena, sulla destra, restando all'interno della mimetica. L'analisi del proiettile ha rivelato che l'arma utilizzata è inedita (come l'intera modalità dell'attacco) per il teatro afghano: si tratta di un vecchio fucile di precisione sovietico, il Dragunov. L'arma, secondo una segnalazione dell'intelligence, sarebbe recentemente comparsa sul mercato nero di Farah, e pur non essendo particolarmente sofisticata, ha consentito ai ribelli di modificare le strategie di aggressione. Il "plotone rinforzato" degli alpini nell'avamposto "Snow" ha chiesto anche copertura aerea nel corso del combattimento, e un velivolo statunitense ha posto fine allo scontro a fuoco, sganciando una bomba che ha ucciso quattro persone, presumibilmente gli assalitori, ritrovati nel corso delle perlustrazioni seguite all'attacco. Ma La Russa, che ha telefonato al padre dell'alpino ucciso per informarlo dei nuovi particolari, ha voluto precisare che non è comunque escluso che a sparare sia stata una sola arma, e che il ruolo degli altri presunti insorti ritrovati sia ancora da accertare.


Nonostante l'episodio "inedito", l'ennesimo lutto e il fatto che nemmeno l'inverno quest'anno, a differenza dai precedenti, sembra aver rallentato le ostilità degli "insurgents", il ministro della Difesa esclude il rischio di un'escalation di attacchi contro i nostri uomini, anche se non minimizza i pericoli di un lavoro nel quale, a prescindere dalle dotazioni e dalle precauzioni, «non esiste la sicurezza al cento per cento». «Il rischio non è aumentato - speiga La Russa -, ma non è diminuito».

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