Roma - La linea di Prodi. all’indomani della batosta, è chiara: «Era un risultato assolutamente atteso», e nessuno provi ad usarlo contro di lui: «Ho fatto un programma per 5 anni, e il raccolto si farà alla fine», non un minuto prima. Intanto Francesco Rutelli, che nei momenti di crisi è capace di muoversi più in fretta degli altri capi dell’assai intronato centrosinistra post-débâcle elettorale, si posiziona rapidamente come l’acceleratore numero uno dentro il Partito democratico. Nella direzione della Margherita convocata ad urne ancora aperte, ieri ha criticato senza giri di parole l’operato del governo, rinfacciando al premier le mancate scelte che lui era stato il primo a sollecitare (la riduzione dell’Ici in primis, ma anche la tentennante gestione del contratto agli statali che «poteva essere chiuso prima»). E detta l’agenda di una nuova linea «riformista» che il governo dovrebbe imporre: subito il sì alla Tav, subito misure incisive per la «sicurezza» e la «certezza del diritto». Prodi finisce sul banco degli imputati per un risultato elettorale che se per l’Ulivo è stato «molto deludente» non ha certo «premiato» la sinistra radicale. «Le difficoltà del governo riguardano la capacità di decisione e la qualità della comunicazione», la gestione della Finanziaria è stata «non brillante» e «confusa», e nei mesi «sono stati aperti troppi temi, spesso troppo a lungo e con troppi ripensamenti». «Non siamo riusciti a dare un messaggio positivo» neppure sul famoso tesoretto, che pure poteva essere una leva di consenso.
Ma è sulla questione della leadership del Partito democratico che la relazione di Rutelli ha fatto drizzare le orecchie sia dentro il suo partito che nei Ds e a Palazzo Chigi: il vicepremier ha spiegato di guardare «con favore alla sollecitazione di Franceschini per accelerare i tempi» della scelta. «Serve una leadership piena, che non sia tanto il frutto di un’intesa tra i gruppi dirigenti dei partiti», ha affermato. Indicando un percorso che sembra quello dell’elezione diretta del capo del partito, da abbinare alle elezioni di ottobre per l’Assemblea costituente del Pd.
Un percorso che naturalmente può prevedere più candidati in lizza, come spiegano i rutelliani: «Prima occorre indicare i traguardi e la mission che si vuol dare il nuovo partito, e poi su quella base si sceglierà il leader più adatto a portarli avanti». E più d’uno, nella Margherita, ne ha tratto la conclusione che «Rutelli è pronto a giocarsi questa partita» e, se le condizioni saranno favorevoli, a candidarsi in prima persona, costruendosi «un profilo da Sarkozy italiano» capace di contrastare l’assalto dell’ala sinistra dell’Unione, suggerisce qualcuno. Contando sul fatto che i Ds sono paralizzati dai veti incrociati interni, e che Walter Veltroni non è pronto a spendersi in questa fase.
Naturalmente, Rutelli ha tenuto a precisare che Prodi (notoriamente contrarissimo a un’accelerazione sulla scelta del leader) non deve sentirsi messo in discussione né commissariato: ma dopo la dura sconfitta nelle urne, anche il premier deve prendere atto che «ora più che mai, c’è bisogno di un Partito democratico capace di giocare a tutto campo per dare le risposte alle sfide di questa stagione politica». Franceschini, che aspira anche lui a concorrere alla guida del Pd, si dice «soddisfatto» e assicura che il partito andrà «compatto» su questa linea al confronto con i Ds e con Prodi, il quale peraltro sembra pronto a raccogliere la sfida. Ieri sera, a Ballarò, il fido Giulio Santagata ha lanciato un messaggio chiaro: «Vogliamo fare le primarie per leadership del Pd? Prodi correrà.
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