Rutelli, Veltroni e il partito della politologia

Gianni Baget Bozzo

In piena campagna elettorale, Rutelli e Veltroni hanno rilanciato la proposta del partito democratico, cioè dello scioglimento dei Ds e della Margherita in un nuovo soggetto politico. Essi hanno così inteso dare all'alleanza dell'Ulivo come distinta dall'Unione un suo significato, quello di un superamento della figura stessa del partito postcomunista in una combinazione politica che potrebbe definirsi «centrista». È maturata, nella dirigenza ds, la consapevolezza che la riforma della Bolognina non basta più, che non è sufficiente cambiare il nome del Pci in Ds per risolvere in Italia la questione comunista. Quando Berlusconi pone questo problema, viene considerato fuori dal contesto politico italiano, ma quando si guarda a tale contesto si scopre che la questione comunista è viva e parla ancora nel dibattito interno ai partiti dell'Ulivo.
Si potrebbe dire che la conclusione ideale della storia della prima Repubblica, fondata sul contrasto e sulla confluenza dei democristiani e dei comunisti, sarebbe la loro fusione in un unico partito. Con tale combinazione si perderebbe del tutto il disegno originale di D'Alema, quello di trasformare il partito postcomunista in un partito socialdemocratico, di cercare cioè nella tradizione socialista la legittimazione culturale del Ds. Ne verrebbe una curiosa situazione, in cui la memoria della sinistra italiana sarebbe affidata solo ai partiti di estrema sinistra, mentre quella comunista finirebbe in una combinazione singolare di cui non si comprende la natura. Il partito democratico avrebbe un significato vagamente centrista, che non conviene alla storia della sinistra italiana.
È quello che De Benedetti auspica: un partito staccato da tutte le tradizioni politiche italiane, divenuto un mero contenitore, in cui mancherebbe di fatto ogni contatto con le radici e le identità politiche della storia italiana: la forma politica della tecnocrazia, in cui il partito diviene uno spazio vuoto in cui sono possibili tutti i contenuti. Sarebbe la formula adatta per un partito di tecnici della politica, che userebbero tutti i linguaggi senza impegnarsi con alcuno di essi. I margheriti non sono più «cattolici democratici», come si definivano un tempo, così come i ds cesserebbero di pensarsi come socialdemocratici.
Sembrerebbe la medesima operazione di superamento della forma partito espressa da Berlusconi, ma si tratta in realtà di cosa molto diversa. In Forza Italia e nella Casa delle libertà è vivo il riferimento alle tradizioni storiche del Paese, e non a caso esse sono nate da un rapporto diretto di Berlusconi col popolo, in un forma che viene chiamata ovviamente, dalla cultura politica dominante, «populismo». La continuità con la tradizione politica della prima Repubblica è espressa più dall'esperienza di Berlusconi che non dai partiti che fanno riferimento ad essa, perché mentre ciò che è nato da Berlusconi prende la forma di iniziativa popolare, e quindi politica in senso proprio, il partito democratico sarebbe la politica dei tecnici delle istituzioni, il cui linguaggio si giustifica soltanto con la loro competenza a governare.


Il partito democratico sembra lo svuotamento del contenuto politico popolare della democrazia, sarebbe un partito della politologia, non della politica. Per questo, non a caso, è il partito di Scalfari e De Benedetti, a cui Rutelli e Veltroni cominciano a dare consistenza reale.
bagetbozzo@ragionpolitica.it

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