Nei giornali anglosassoni si comincia a chiedersi - gli ambienti diplomatici di tutto il mondo lo fanno già da anni - se i popoli arabi sono pronti per la democrazia. Una questione complessa, in teoria, ma soltanto in teoria.
Un concreto principio di
Realpolitik vorrebbe che no, senz’altro no. Anzitutto perché vengono
da un lungo, lunghissimo - a volte sempiterno - periodo di dittatura. E
la dittatura lascia segni e cicatrici non facilmente delebili non
soltanto nelle strutture dello stato, ma addirittura anche nelle
abitudini del vivere civile, nella personalità degli individui, nei
loro modi quotidiani di vivere in comunità. Lo so, il primo esempio
che viene in mente per contrastare questa ipotesi riguarda la nostra
storia, noi e il fascismo. Quella dittatura, però, durò «appena»
vent’anni, venivamo da tradizioni liberali e ci siamo subito trovati
circondati da un mondo- amico - di tradizioni democratiche: Francia,
Gran Bretagna, Stati Uniti eccetera. Per gli arabi, soggetti a una
dominazione più lunga e abituati a considerare l'Occidente come ostile
e coloniale, il passaggio non sarebbe così facile e immediato,
anche se risolvibile con un'assistenza economica, politica e culturale
non invasiva, una specie di introduzione alla democrazia.
Il
vero problema, però, è l’Islam, la religione/cultura che permea quei
popoli. Per sua natura l'islamismo non è democratico, e basti pensare
al ruolo subordinato che in quasi tutti i Paesi viene riservato alle
donne. Le leggi del Corano, che spesso diventano leggi tout court o le
influenzano, sono in contrasto irriducibile con ciò che intendiamo
per democrazia. E, si badi, non voglio attaccare il Corano in sé:
sarebbe lo stesso anche nel mondo occidentale se la Bibbia non fosse
stata stemperata - nelle regole della convivenza civile - da secoli di
lotte razionaliste.
La controprova è la Turchia, il più occidentale
dei Paesi islamici, dove la democrazia è stata instaurata da quasi un
secolo, ormai, e dove da quasi un secolo si assiste a rigurgiti anche
violenti di integralismo religioso.
E
però credo che dobbiamo aiutare tutti i popoli del mondo arabo -
quelli in rivolta e quelli che lo saranno - ad applicare subito, senza
se e senza ma, tutti i principi della nostra vita democratica. Ce lo
impongono la nostra storia e la nostra visione del mondo: non
possiamo manifestarci sinceramente democratici e poi applicare una
democrazia condizionale ai nuovi arrivati. Sarebbe come applicare un
vero e proprio neocolonialismo (ma basato ancora una volta sulla
supremazia economica e delle armi) con la scusa non sempre in buona
fede di aiutare quei popoli a crescere.
I popoli e gli Stati,
invece, vengono aiutati a crescere sostenendo la loro economia, la
loro evoluzione culturale, la loro indipendenza. Qui non si tratta di
imporre la democrazia, come nei casi estremi dell'Irak e
dell'Afghanistan: è naturale che quando si vuole imporre un modello a
un popolo, parte di quel popolo si ribella. Lo faremmo anche noi. Qui
assistiamo al fenomeno di una fetta considerevole
di mondo che si ribella a dittature di vario genere per un principio di
libertà, lasciando in coda e in sordina gli estremisti che vi si
ribellano in nome di una legge religiosa che porterebbe a dittature
più gravi e più implacabili.
È quel principio di libertà su cui
si basa la nostra convivenza civile che dobbiamo aiutare ad affermarsi
nel mondo arabo, ora che ce ne viene data la possibilità. Faranno degli
errori, anche gravi.
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