Sacchi via, un segnale per Capello

Al «Caminetto» di Milano Marittima, il ristorante rifugio, possono riservargli il tavolo centrale per il cenone di San Silvestro. Arrigo e Giovanna Sacchi, marito e moglie, con figlie, generi e amici di una vita saranno lì a festeggiare un altro anno che se ne va e un altro lavoro lasciato alle spalle. Niente paura per la salute del fusignanista: sta benissimo. Specie quando può tornare dalle sue parti e mettersi al desco di Franco, titolare del Caminetto di Milano Marittima, il suo buen ritiro, con la pineta a due passi da casa, le corse in bici e con il cane al guinzaglio. Ieri Arrigo Sacchi ha deciso di piantare in asso il Real e quella tentazione diabolica che lo spinse, giusto un anno fa di questi tempi, a chiudere col Parma e a rimettersi in viaggio verso Madrid, la città della sua carriera incompiuta. Lasciò la panchina dell’Atletico a metà della stagione per non macchiare l’immacolata carriera con un esonero, lascia adesso la scrivania del Real Madrid dopo aver provato a fare il proprio lavoro, a convivere con quel vulcano di presidente che decide su tutto, mercato compreso e chiede il conto, il lunedì mattina all’allenatore di turno. «Non posso lavorare così» ripetè ai suoi intimi.
Arrigo, a Madrid, ha vissuto di dubbi e inquietanti interrogativi. Ha perdonato le invasioni di Perez, una, due, tre volte. Quando seppe dell’acquisto di Pablo Garcia, andò su tutte le furie. Il presidente gli disse serafico: «Arrigo, mi consenta un capriccio». Quando bocciò Gilardino per Robinho, Florentino spiegò al fusignanista che «il Real vende magliette e con Robinho avrebbe ripagato il cartellino». Sacchi ha provato a resistere. Un mese, due mesi, un anno addirittura, prima di cedere dinanzi a una squadra scombinata, il Real appunto, che collezione di stelle e prime donne. «Cercherò di combinarla» promise al cronista sabato scorso, quando venne informato del lutto di un giornalista di Parma. Aveva già deciso di chiudere, come ha detto ieri Bronzetti («dopo lo 0-3 col Barça ci ha detto che andava via»), come hanno confermato i suoi amici di Fusignano, Italo, il professore, e Vincenzo Pincolini. Sarà rimpiazzato da Hierro, l’ombrello che Perez apre quando fuori piove a dirotto sul Real.

E non correrà il rischio di incrociare Capello, candidato con Eriksson, Ancelotti, Mourinho e Wenger sulla panchina delle merengues. «Forse è destino che io e Carlo non si debba mai lavorare insieme» è il suo ultimo lamento. Prima di chiudere casa il 21 dicembre. E tornare in tempo per il cenone al Caminetto.

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