Edoardo Bellamacina si sente vittima di un’ingiustizia. Ed è difficile dargli torto. Chiariamo subito che non si tratta di un top manager con stipendi da milioni di euro, né di uno di quegli imprenditori furbastri che sfruttano i lavoratori in nero o sottopagandoli. Edoardo Bellamacina è un tipico artigiano diventato imprenditore. A Villasanta, alle porte di Monza. Diciotto anni a montare impianti di antifurto e impianti elettrici. Il titolare più due dipendenti, uno a tempo indeterminato e un apprendista. Poi nel 2008 arrivò la crisi, il fatturato crollò. E iniziò un’altra battaglia. Per la sopravvivenza, culminata in una scelta dolorosa: dover lasciare a casa uno dei collaboratori. «Scelsi l’apprendista, perché più giovane, aveva vent’anni. Gli spiegai la gravità della situazione e lui sembrava aver capito», racconta Bellamacina al Giornale.
Una scelta difficile, ma legale. La legge prevede che le imprese fino a 15 dipendenti possano licenziare un dipendente, tanto più se l’imprenditore vi è costretto per non chiudere l’azienda. In un altro Paese la storia finirebbe qui. Ma in Italia no. Quel giovane ci ripensa e fa causa. Chiede il reintegro e danni morali per non aver concluso il ciclo di apprendistato. Una causa perlomeno ardita, che Bellamacina affronta con grinta.
Prepara la documentazione. «Bilanci, buste paga, prospetto di rimborso di un finanziamento che ho dovuto chiedere alla mia banca per poter far fronte alla crisi economica, rateizzazione concessa da Equitalia per i pagamenti arretrati che non sono riuscito a espletare». E una memoria difensiva, basata sulla legge, che parla chiaro. Il suo non è un abuso, ma un diritto. In teoria. In un’aula di tribunale è un’altra storia.
La legge prevede che nelle cause di lavoro il giudice tenti una conciliazione. Bellamacina è fiducioso, ma la procedura gli sembra subito singolare. Quel giovane nel frattempo ha trovato lavoro come guardia giurata. Per il giudice è la prova che il querelante è una persona seria. «Mi aspettavo domande nel merito - continua Bellamacina -. E invece il magistrato si è rivolto a me con queste parole: “Ma a lei conviene affrontare una causa civile rischiando di dover pagare sei mensilità al lavoratore? Non le conviene mettersi d’accordo?”».
Bellamacina, sconcertato e convinto di aver ragione, gli chiede di esaminare gli atti. «A quel punto il giudice in maniera sgarbata ed aggressiva ha fatto uscire me ed il mio ex dipendente dalla stanza dicendo di voler parlare da solo con i difensori. Poco dopo il mio avvocato mi ha raggiunto e mi ha detto che il giudice proponeva la conciliazione, con il pagamento al dipendente di 1500 euro da parte mia e di 500 come risarcimento delle spese legali all’avvocato della controparte».
Senza spiegare la ragioni, senza entrare nel merito. «Il mio avvocato mi ha suggerito di accettare - si sfoga Bellamacina -. E non ho tardato a capire perché. Se fossimo andati in appello, con ulteriore aggravi di costi, avremmo comunque avuto alte probabilità di trovare un collegio di tre giudici simili a quello di primo grado. Ho dovuto piegare la testa». In appena dieci minuti.
Pagherà, Bellamacina. Ma la rabbia non è passata. Il codice attribuisce al giudice un ampio margine di discrezionalità nelle cause di diritto del lavoro e questo legittima il suo comportamento. Ma il cittadino comune resta disorientato.
Bellamacina non ha la certezza che gli atti siano stati davvero letti prima dell’udienza, come prescrive la legge.
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