Salute

«Come intervenire sulla maculopatia»

Il professore: «Le nuove molecole riducono la frequenza delle terapie»

Professor Federico Ricci, direttore dell'Unità patologie croniche degenerative oftalmiche dell'Università di Tor Vergata, cos'è la maculopatia?

«La maculopatia è una patologia che si sviluppa nella zona centrale della retina che si chiama macula. Esistono diversi tipi di maculopatia che complicano il decorso della malattia diabetica e che sono semplicemente una conseguenza dell'età o della miopia elevata. L'elemento comune di queste patologie è che, a causa del liberarsi di fattori umorali come il Vegf (acronimo di vascular endothelial growth factor, fattore di crescita dell'endotelio vascolare; ndr), i vasi sanguigni perdono la loro impermeabilità. Si verifica, così, un accumulo di fluidi al centro della retina, limitando la funzione visiva».

Che tipo di incidenza ha la maculopatia?

«La retinopatia diabetica affligge il 35% dei pazienti diabetici e, di questi, il 6% hanno un edema maculare diabetico o maculopatia diabetica. Sulla forma senile siamo a una prevalenza che varia dal 2 al 10% in relazione all'età dei pazienti. Inizia intorno a 50 anni e a 80 anni arriva al 10-12%. Di questi, il 6-7% ha la forma essudativa rapidamente ingravescente e caratterizzata dalla perdita di sangue e fluido nella retina».

Quale percorso terapeutico occorre seguire?

«Le possibilità di curare queste malattie sono correlate alla precocità della diagnosi. Di solito il paziente si accorge di una macchia scura al centro del campo visivo o di vedere in modo ondulato e non diritto. A questo punto si reca in una struttura ospedaliera o ambulatoriale. Un oculista, anche con il semplice esame clinico del fundus dell'occhio, riesce a fare la diagnosi. Il problema è che dalla diagnosi all'accesso alla terapia, passa molto tempo; e questo è uno dei limiti organizzativi del Servizio sanitario nazionale. Le Regioni sono state prese di sorpresa rispetto alla larga diffusione della patologia e dal numero elevato di terapie per anno che devono essere effettuate. Il paziente, infatti, deve essere sottoposto a un ciclo terapeutico che di solito è caratterizzato da iniezioni intravitreali».

Qual è l'approccio standard e quali innovazioni ci sono?

«L'approccio standard è l'uso degli inibitori del Vegf. Ce ne sono diverse classi e generazioni. Alcuni sono stati sintetizzati oltre 10 anni fa e altre sono molecole nuovissime di cui abbiamo terminato lo studio di fase III che hanno lo stesso obiettivo, cioè il Vegf. Le molecole più nuove, però, necessitano di una frequenza di somministrazione molto minore. Il vantaggio è la riduzione del numero di terapie per anno per singolo paziente. Considerato che molti hanno patologie bilaterali, in questo modo si dà un po' di respiro al paziente e ai familiari che lo accompagnano, con un risparmio del 20-30% del tempo impiegato. Le nuove molecole (come il Brolucizumab di Novartis; ndr) permetteranno di gestire il paziente con 6-7 terapie l'anno in modo appropriato e con ottimi risultati sia dal punto funzionale sia anatomico».

Su quali indirizzi si sta indirizzando oggi la ricerca?

«La caratteristica degli inibitori del Vegf nuovi è che sono caratterizzati da una elevata capacità di deidratare la retina. L'altra linea di ricerca agli albori è quella della terapia genica, cioè si caricano vettori virali con proteine che mancano nell'occhio del paziente che ha quella determinata patologia, e questa infezione virale benigna stimola la produzione di geni intrinsecamente terapeutici, ma questo sarà il futuro. Attualmente la base delle terapie sono gli inibitori del Vegf».

GDeF

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