Samp, sfogo di Cassano: "Se volete me ne vado"

Osannato dai pugliesi, fischiato dai suoi: l’accusano di non aver voluto infierire sul suo passato. Lui si presenta in sala stampa e si sfoga

Samp, sfogo di Cassano: 
"Se volete me ne vado"

Cassano ha la faccia storta. «Se sento fischiare un'altra volta lascio la Samp. L'ho già fatto a Roma e Madrid, posso farlo anche qui». Non è la fine di tutto, non è la fine di niente. È una giornata sbagliata, perché piena. Troppo.

Antonio sente i fischi per la prima volta, sente il peso di un'idiozia collettiva che prende una parte della tifoseria della Samp. Perché l'hanno fischiato? Dicono abbia giocato la partita più brutta della sua esperienza a Genova. Lo dicono apposta, perché questa per lui non era una partita normale. Allora è facile il retropensiero: ha giocato male perché non voleva fare male al Bari. Tutti a pensare ai primi minuti. Alla sua faccia storta per altro: una smorfia che si fa fatica a capire: è tensione? È memoria? È voglia? È riconoscenza?

Prima che entri c'è uno stadio intero che ha trovato un idolo e un nemico: Cassano è il primo, Lippi è il secondo. La Nazionale invece è l'ossessione collettiva e personale, il mondiale è l'appuntamento dove c'è un paese che lo vuole e una persona che non lo desidera. Allora Marassi lo grida: 30mila doriani e 5mila baresi, insieme, uguali, sincronizzati. Poi arriva lui, con la maglia d'allenamento e con la faccia tirata. Che cos'è che lo agita? Non lo sapremo mai fino a quando non lo dirà.

Devi cercare di capire da solo con lui: il volto che si contrae, la lingua che passa sulle labbra per bagnarle perché la saliva non c'è. Antonio ha la gola secca. Alza la testa verso la metà della gradinata Nord che ospita i tifosi del Bari, s'avvicina al trotto, guarda le bandiere, ascolta i cori, si batte la mano sul petto all'altezza del cuore, poi china il capo in un mezzo inchino che ripete tre volte. Allora torna indietro, continua a riscaldarsi, s'avvicina al gruppo. È diverso lui, è diversa l'atmosfera: Sampdoria-Bari non è una partita normale. È come giocare contro se stessi e contro se stessi è impossibile giocare.
Cassano non aveva mai fatto i conti con questo passato, con quelle maglie, con le sue origini. Bari è stato un marchio per dieci anni: Antonio Cassano di Bari vecchia, dicevano. Lo dicono ancora, per marchiare, per ricordare la provenienza difficile o per sintetizzare in tre parole un riscatto. Come dice lui nel suo libro: «Ho vissuto 17 anni da pezzente e nove da ricco, me ne mancano ancora otto per pareggiare». Bari è tutti i primi diciassette anni e l'inizio degli altri. Però non è questo, vero? Antonio non pensa a una sola di queste parole. Questa è un'emozione diversa, ancora impossibile da decifrare: se non si vive non si capisce. E Cassano non l'ha vissuta. Così dieci anni per ritrovare se stessi non si assorbono in novantasette minuti incredibili, a volte assurdi, nei quali lui non è stato quello che avrebbe potuto. S'è visto al terzo minuto, poi sì e no.

Cassano va, si muove, gioca, accompagna la squadra, cerca Pazzini, cerca Mannini, cerca gli altri. La Samp rischia di perdere, perché il Bari gioca e spreca. A Genova credono che sia impossibile? Non hanno visto Inter-Bari, Milan-Bari, Bari-Lazio. Danno tutta la colpa a lui. Perché? Perché butta in fallo laterale una palla che ha tra i piedi al limite dell'area del Bari quando Bonucci si fa male? Scriveranno che l'ha fatto apposta perché contro ha la sua vita. Non s'accorgono che lo fa ogni volta.

Sì, è il gioco? Cassano finirà con sotto la sufficienza. Questa non è la partita della vita, ma chi dice che sia la peggiore nella sua era Samp è in malafede. Non vince nessuno. Non vince Cassano. Non vince Lippi. Non vince la gente. Non vince chi fischia.

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