Crotone Piange, quasi come se avesse saputo della morte della mamma, il piccolo Antonio, il bambino nato da Jessica Rita Spina, la diciannovenne deceduta dopo il parto cesareo ieri mattina nell'ospedale San Giovanni di Dio di Crotone. Il bambino, che pesa due chili e 600 grammi e gode di buona salute, è tenuto tra le braccia dalla nonna e dagli zii. Lo guardano con gli occhi arrossati dalla commozione.
Jessica Rita, che aveva tanto desiderato quella gravidanza insieme al suo compagno Andrea, aveva deciso di chiamare Antonio il suo bambino, come il padre, ex agente di polizia penitenziaria, morto un anno fa. Dopo il parto cesareo non riusciva a respirare ed allora i familiari hanno chiesto l'intervento dei medici che, a distanza di 24 ore, hanno diagnosticato il collasso di un polmone ed un blocco renale.
La ragazza, alla quale mancavano tre settimane per completare i nove mesi di gravidanza, era giunta mercoledì scorso nell'ospedale di Crotone e, secondo i familiari, era in perfette condizioni di salute. Secondo il racconto dei familiari, lo pneumologo del nosocomio è intervenuto 24 ore dopo la loro richiesta di aiuto. Successivamente la ragazza è stata trasferita dal reparto di ginecologia in quello di rianimazione dove ieri è morta. Il magistrato della Procura della Repubblica ha disposto il sequestro della cartella clinica è disposto l'autopsia.
«Si tratta di uno stillicidio raggelante che deve finire», ha commentato Ignazio Marino, presidente della Commissione d'inchiesta sul SSN: «La sanità calabrese è da tempo sotto osservazione della nostra Commissione anche per quanto riguarda il parto cesareo: a Reggio Calabria il 65% delle donne vengono sottoposte a parto cesareo, anche se l'Organizzazione mondiale della sanità sostiene che la media dei parti cesarei dovrebbe arrivare al 13,7%. Per di più l'intervento avviene generalmente in piccole strutture private accreditate, quasi sempre di mattina, in un giorno feriale. Una scelta che sembra motivata dalla possibilità di ottenere un rimborso economico per l'intervento più che dalla tutela della salute delle pazienti».
Ma in questo lembo d'Italia le morti per malasanità non sono cosa rare. Il tributo più alto l'hanno pagato donne e bambini. La gestione della malasanità calabrese è un micidiale mix di incompetenza, cattiva gestione, degrado strutturale, disorganizzazione amministrativa e infiltrazione mafiose, tutti elementi che stritolano gli ospedali pubblici e privati calabresi. Proprio ieri mattina sono finiti in manette due medici calabresi che, stando alle tesi dell'accusa, si sarebbero accordati con la cosca Pelle di San Luca per emettere falsi certificati al fine di farli uscire di galera.
In particolare, i medici Francesco Moro, in servizio presso il pronto soccorso degli ospedali riuniti di Locri, e Guglielmo Quartucci, responsabile della clinica psichiatrica «Villa degli Oleandri», avrebbero innescato, stando sempre alle ipotesi avanzate dalla magistratura, un vero e proprio sistema di connivenza con i boss: le cartelle mediche, veri e propri dossier clinici falsi, sarebbero state preparate addirittura in via preventiva, in maniera tale che se l'assistito fosse stato arrestato, si sarebbe potuto procedere alla sua scarcerazione per «incompatibilità» con il regime carcerario a causa della depressione maggiore.
D'altronde per decenni niente è stato più facile in Calabria che trovare un posto di lavoro in ospedale. Ndrangheta e politica hanno fatto da efficenttissimo ufficio di collocamento per i propri adepti.
La Commissione d'accesso insediata all'Asl di Locri dopo l'omicidio Fortugno scovò 13 medici, 29 infermieri, 18 tecnici e 23 addetti alle pulizie con precedenti o legami di parentela con la 'ndrangheta. E poi detenuti che hanno continuato a ricevere lo stipendio per oltre dieci anni e decine di laboratori e strutture accreditati senza averne titolo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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