Politica

Santa Dorotea, il Pdl cinquant'anni fa

La scelta democristiana di rinunciare alle tentazioni del centrosinistra nel 1959 contribuì a rafforzare la natura moderata e riformista del partito fondato da Sturzo. Rispetto dell'iniziativa privata, della matrice cattolica della società e dello stato di diritto sono anche la base della nuova formazione politica

Roma - Cinquant'anni fa nasceva il Popolo della Libertà. Anche se, a quel tempo, non aveva ancora perfetta coscienza di sé. E, soprattutto, non si sapeva ancora che ci sarebbe voluto molto tempo perché quel progetto, che andava delineandosi come puro e semplice moto di opposizione a una deriva «sinistrorsa» della maggioranza di governo, si realizzasse compiutamente esso stesso come area governativa rappresentante la maggioranza degli italiani. Alla vigilia del congresso fondativo del Pdl è perciò opportuno ricordare quante somiglianze ci siano tra l'iniziativa dei coraggiosi di Santa Dorotea e l'attuale situazione politica.

I PRODROMI. Come il discorso di Silvio Berlusconi a Piazza San Babila nel novembre 2007 è stato anticipatore della fondazione di un nuovo soggetto politico che raccogliesse le istanze moderate e riformista del centrodestra italiano senza tradire la matrice cattolica della cultura italiana, allo stesso modo nel luglio del 1957 un evento precorse la situazione che si sarebbe determinata nel marzo di due anni dopo. Nel consiglio nazionale della Democrazia Cristiana di Vallombrosa la monolitica leadership di Amintore Fanfani, dominus incontrastato della Dc sin dalla scomparsa di Alcide De Gasperi, fu per la prima volta messa in discussione. Con l'astensione della maggioranza dei consiglieri fu respinta la proposta di aprire una nuova fase di governo, includendovi anche il Partito socialista. Il voto contrario di esponenti di primo piano come Antonio Segni, Attilio Piccioni, Benigno Zaccagnini, Emilio Colombo, Paolo Vittorio Taviani, Tommaso Morlino, Mario Scelba e un giovane Francesco Cossiga scrive momentaneamente la parola fine a qualsiasi velleità di coinvolgimento di una sinistra ancora marxista-leninista alla guida della Repubblica. In questo modo fu ribadita la natura centrista della politica democristiana e il suo collegamento alle forze sinceramente democratiche e liberali. Curioso particolare è il contesto non istituzionale della formazione del nuovo soggetto. I dissenzienti democristiani si riunirono a casa del futuro segretario Aldo Moro, in quei giorni afflitto da una sciatalgia.

SANTA DOROTEA. Ma è nel convento romano di Santa Dorotea, il 9 marzo 1959, che si preannuncia il grande cambiamento politico. Gli esponenti di punta delle correnti di centro-destra della Dc inclusa la maggioranza di «Iniziativa democratica» facente capo a Fanfani stesso decidono la svolta. Il leader aretino, dimissionario sia da presidente del Consiglio che da segretario politico di Piazza del Gesù, venne definitivamente sfiduciato. La nuova corrente dei «dorotei», che prese il nome proprio dal luogo di riunione, ne determinò la sostituzione con Aldo Moro e, dopo alcune difficoltà, favorì la formazione di un esecutivo monocolore guidato da Antonio Segni. Decisivi i voti del Partito liberale, dei monarchici e del Movimento sociale italiano che sarà determinante anche per il successivo governo Tambroni.

IL CONGRESSO DI FIRENZE. Il settimo congresso della Democrazia cristiana, svoltosi a Firenze nel novembre del 1959, incorona Aldo Moro come guida del partito. È il congresso del ritorno alle origini perché la direzione politica torna nelle mani dei veri eredi dei padri fondatori, don Luigi Sturzo e Alcide De Gasperi. Per il successo di Moro (837.668 voti congressuali contro i 768.666 della sinistra fanfaniana) sono fondamentali le convergenze tra le correnti dorotea, scelbiana e andreottiana. Alla visione di Fanfani, fautore di politiche economiche stataliste e nazionalizzatici, si contrappone uno schieramento moderato nel quale l'intervento pubblico deve limitarsi solo a evitare che le disparità possano ulteriormente penalizzare le classi più deboli. Uno spirito che attualmente è possibile riscontrare in alcuni provvedimenti del governo Berlusconi (dalla «Robin tax» alla «social card»). A Firenze la deriva a sinistra viene scongiurata anche in virtù del ritardo ideologico e programmatico del Partito socialista di Pietro Nenni, sovente impegnato a differenziarsi più dal Psdi di Saragat che dal Pci di Togliatti dal quale aveva preso opportunamente le distanze dopo i «fatti di Ungheria» del 1956.

IL SUBSTRATO CULTURALE. Nelle mozioni presentate al congresso di Firenze è possibile riscontrare alcuni tratti distintivi del moderno moderatismo. Non va dimenticato, infatti, che la Democrazia cristiana, oltre ad aver avallato la scelta atlantica stabilendo un filo diretto privilegiato con gli Stati Uniti (prima di Berlusconi nel 2006 fu Mario Scelba nel 1955 il primo presidente del Consiglio italiano ad avere l'onore di intervenire al Congresso; ndr), scommise sul destino comunitario dell'Europa promuovendo la Comunità Europea sin dai suoi albori. «La solidarietà degli Stati Uniti d'America con tutto il mondo occidentale assicura che gli auspicati sviluppi di pace non siano per svolgersi al di sopra o fuori dell'Europa, il cui contributo di presenza e di autorità sarà tanto più efficace quanto più l'Europa, abbandonando una politica superata di particolarismo e di prestigio, realizzi una sua unità economica, politica e spirituale». Questo è il credo atlantico e occidentale della mozione dorotea la cui validità si può affermare che resti oggi inalterata anche nello spirito costituente del Popolo della Libertà. «Contro il mortificante livellamento che reca con sé ogni forma di collettivismo, la D.C. riafferma la varietà della vita sociale e la diversità delle categorie e delle funzioni nella vita economica». Analogamente la mozione dorotea sconfessa qualsiasi tentazione comunista, pur conservando al suo interno l'auspicio di un pieno «coinvolgimento delle masse popolari» che sarà foriero della futura instabilità.

FATTORI DI MODERNITÀ. «Affermata la insurrogabile funzione dei partiti nella democrazia moderna (…) deve però essere considerata negativa, al fine del rafforzamento del regime democratico, la tendenza a sminuire di fronte alla coscienza popolare l'autonomia del Parlamento e del Governo, che ne è l'espressione, e la loro responsabilità». Dei personaggi eminenti della Dc, Mario Scelba, discepolo di Luigi Sturzo, è sicuramente l'anticipatore di alcune tendenze moderne, all'epoca e anche oggi interpretate negativamente da una pubblicistica ideologizzata. In questo passaggio della mozione della corrente scelbiana «Centrismo popolare» si riscontra una prerogativa comune agli orientamenti contemporanei: la vita democratica dei partiti non può e non deve influire sull'attività del governo determinando delegittimazioni extraparlamentari al lavoro delle Camere e, soprattutto, dell'esecutivo. La distinzione del piano politico da quello programmatico è uno dei tratti distintivi dell'attuale governo di centrodestra. Lo stesso vale per questa proposizione estrapolata dalla mozione di «Primavera», la corrente di Giulio Andreotti: «Deve farsi leva sulla responsabilità e sul rischio finanziario individuale, svitandosi alla collettività oneri e rischi non necessari». L'intervento pubblico in economia deve essere limitato ai soli casi di necessità. Analogamente bisogna ricordare le linee-guida dell'azione politica di Mario Scelba durante tutta la sua lunga carriera politica: applicazione della legge per evitare qualsiasi spinta antidemocratica (soprattutto comunista), riconoscimento del merito dei funzionari pubblici più solerti e penalizzazione dei «fannulloni». Renato Brunetta era di là da venire…

POLITICA E SOCIETÀ CIVILE. La corrente dorotea e il complesso del centro-destra democristiano erano la naturale espressione di un tessuto sociale e di una rete di alleanze che incarnavano l'essenza stessa della nazione italiana. La Dc originariamente è stato il partito che ha saputo tenere insieme le istanze della piccola e media borghesia, dei ceti popolari agrari e del mondo industriale. La comunanza con l'universo cattolico da un lato e quella con la Confindustria dall'altro hanno consentito il partito la sintesi decisiva per rilanciare l'Italia distrutta dalla guerra. Altresì fondamentali sono state le alleanze con i partiti laici. Vanno ricordati il contributo decisivo del Partito liberale alla rimessa in sesto delle finanze pubbliche così come le spinte riformiste delle parti moderate del Partito socialdemocratico e di quello repubblicano. Un Partito socialista ancora lontano dalla realpolitik craxiana e analogamente la sostanziale impreparazione del Movimento sociale italiano a sostenere quella svolta che sarebbe potuta avvenire solo nel 1995 hanno reso sostanzialmente breve la stagione del centrodestra doroteo.

I semi gettati, nell'arco di cinquant'anni, hanno però germogliato.

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