Santana, una chitarra magica suona il rock che non muore

Al Forum il vecchio leone sfodera i suoi classici, da «Samba pa ti» e «Batuka» a «Maria Maria»

Antonio Lodetti

da Milano

Quando l’eco distorto della sua chitarra fece vibrare mezzo milione di cuori in quel di Woodstock molti fan di oggi non erano neppure nati. Eppure il fascino di Santana ammalia ancora decine di migliaia di persone, che martedì sera hanno ingolfato il Forum di Milano per il suo unico show italiano. Lui, Carlos, è sempre un affascinante groviglio di contraddizioni che intrattiene un rapporto magico e flessibile con il rock duro e i ritmi latini, con la ruvidezza del blues e il romanticismo melodico, con la protesta e il gusto del divertimento. Tiene insieme questo e molto altro sotto la sua bandiera, e con estrema naturalezza unisce la tensione drammatica di Jingo (che apre il concerto - così come apriva gli show degli albori a San Francisco - mentre su uno schermo gigante si libra una colomba bianca) alle pulsioni danzerecce di Maria Maria e di Corazon espinado.
Ci sono i fan della prima ora (quelli a noi più affini)che portano nel cuore le esplosioni ritmiche della Santana Blues Band; un nuovo modo di intendere il rock fatto di blues e latinità, di negritudine indotta e soul jazz. Ci sono poi i fan più giovani, stregati dalla sua funambolica chitarra ma anche dalla festosa cantabilità delle sue prove più recenti. Certo il Santana d’antan era molto più spiazzante e sorprendente; un focoso don Chisciotte che con i suoi furori e il gagliardo supporto ritmico della sua band lanciava il grido di guerra della musica etnica. Oggi naturalmente è più istrione, più ammiccante nelle sue svisate mozzafiato, negli assolo brutali e imprendibili sulle note acutissime, nel condire i suoi evergreen col pepe e col miele.
Comunque il concerto è bello tosto; Carlos suona con passione e ispirazione senza perdere d’occhio la via del rock, tutti ci danno dentro da matti tanto che a tratti percussioni, fiati e tastiere si sovrappongono fragorosamente. Ma lui è trasversale nel senso più completo del termine, così tiene un perfetto equilibrio tra brani dall’immediata comunicativa come Africa Bamba, Foo Foo, la stessa Maria Maria e i toni invasati di vecchi inni come Soul sacrifice, Batuka e No one to depend on. Il pubblico urla e applaude allo stesso modo la leggera I am somebody e la violenta Incident at Neshabur che apre i bis nel segno del ricordo, mentre sullo schermo passano le immagini delle storiche «scivolate nel fango» di Woodstock. Alle prime note di Samba pa ti (in una versione lunghissima con un serrato dialogo antifonale tra chitarra e percussioni) tra il pubblico rispuntano dal giurassico le fiamme degli accendini. «Non m’importa se Gesù è stato con la Maddalena - la introduce Santana - ma so che ognuno di noi ha qualcosa di divino nel cuore». Un concerto all’insegna della nostalgia? Può essere, oppure la parata - un po’ autoreferenziale ma sincera - di un artista che è ancora in grado di regalare, senza tradire le radici, un’elegante e creativa sintesi tra generi e stili apparentemente lontani tra loro.

Mentre la colomba riprende il volo, Carlos saluta Dylan, Marley, Gandhi, Mandela e il suo idolo John Coltrane con una vibrante versione di A love supreme. Grandi applausi non solo per il leader ma anche per le valorose e virtuosistiche esplosioni percussive di Karl Perazzo, Raul Rekow, del magnifico Dennis Chambers e per tutta la band, nonostante i momenti di confusione.

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