Santoro lascia la Rai: ora finalmente non pagheremo i suoi comizi

Il conduttore più fazioso del servizio pubblico finalmente trasloca in una tv privata Potrà continuare nella guerriglia contro Silvio, ma almeno senza i soldi del canone

Santoro lascia la Rai: 
ora finalmente non  
pagheremo i suoi comizi

La notizia del giorno è che Michele Santoro ha risolto il proprio rappor­to di lavoro con la Rai. Insomma, se ne va. Scontentando probabilmen­te la metà dell’Italia che lo considera un eroe della libertà di pensiero, e facendo felice l’altra metà che lo ritiene un tribu­no insopportabile. Comunque si giudi­chi Santoro, bravo ma fazioso o fazioso ma bravo, è una buona notizia. Per due ragioni. La prima è che si tratta di una scelta condivisa, una decisione comu­ne. Anzi, a dirla tutta è stata più che altro una decisione sua.

Quindi nessuna cen­sura, nessun bavaglio, nessuna cacciata o editto. E questo, al netto di liquidazio­ni milionarie e polemiche pretestuose, è un bene per tutti: per i diretti interessati, per l’Informazione con la «i» maiuscola, per il pubblico utente e persino per la democrazia. Quando ci si lascia con una stretta di mano, tutti d’accordo, vuol di­re che nessuno può o deve, in futuro, re­criminare. Ma c’è una seconda ragione per la qua­le l’addio (il secondo della carriera, pe­raltro: nel 1996,com’è noto,Santoro pas­sò da Mamma Rai a Papi Berlusconi) è da considerarsi una buona notizia. E sta nel fatto che in questo modo si risolve un grandissimo equivoco, alla base di tutte le zuffe sul teletribuno di Salerno: un fastidioso malinteso di ordine etico­amministrativo che si chiama «cano­ne », cioè l’imposta che si paga per vede­re i programmi della tv di Stato e che la rende, appunto, «servizio pubblico». Cioè di tutti. Cioè non solo di una parte. Perché se avesse voce solo una parte, il pubblico - come è ovvio - avrebbe qual­cosa di meno. E invece il celebre slogan, che ha fatto scuola, recita: «Rai. Di tutto, di più».

Se Michele Santoro farà di tutto, di me­no o di più su un’altra rete, da un’altra parte, non possiamo ancora saperlo. È un professionista. Militante e schierato, ma un professionista. Sapere che la voce di «Santorescu» non si possa più sentire, sarebbe una disgrazia. Sapere che si sen­tirà ancora, e più forte, su un canale tele­visivo di gruppo privato, è una benedi­zione. Ora le cose sono finalmente chiare. E più oneste. Santoro - e il suo caso vale per tanti altri suoi colleghi «militarmen­te » impegnati sul fronte politico, da do­mani potrà dire tutto quello che vuole - come vuole, e anche quando vuole. Con o senza contraddittorio. Rendendo o meno conto al proprio pubblico- che non è obbligato a pagarlo - di ciò che si fa e di ciò che si pensa. Ognuno è padrone, per quanto possa essere padrone un giornalista che ha sempre comunque sopra di sé un editore, di esser fazioso e partigiano quanto vuole. Ma dove non c’è il canone. Dove cioè le leggi del libero mercato sono ancora più forti, più rigorose e più spietate di quanto non siano in casa Rai. È vero: Annozero alla Rai faceva guadagnare parecchi soldi, perché lo share della trasmissione era alto. Ma nell’azienda pubblica Santoro ha avuto tutto il tempo di crescere, nel corso degli anni e dei programmi, anche a fronte di numeri magari agli inizi non esaltanti.

Nella giungla del sistema privato, di certo la vita sarebbe stata più difficile. Lunga vita, comunque, a Santoro, alla Gabanelli (anche lei in procinto di lasciarci, dal punto di vista professionale s’intende...), alle Dandini, ai Fazio e a tutti gli altri faziosi. Ma a condizione che la suddetta vita sia a loro spese, e non alle nostre. L’autonomia professionale e l’indipendenza di giudizio hanno più valore, e più credibilità, se si pagano di tasca propria. Un po’ meno se li si finanzia con le imposte altrui. Davanti alla (buona)uscita di Santoro c’è chi brinda e chi si straccia le vesti. I primi lo fanno cinicamente, i secondi in malafede. Il giornalismo, e non potrebbe non dirlo chi scrive su questo Giornale , può e deve essere anche di «battaglia», culturale e politica. Ma la battaglia non è guerriglia, e ha le sue regole.

Sgombrare il campo dell’informazione dall’equivoco di un «servizio pubblico » pensato per tutti ma fatto solo per una parte, cioè la propria, significa semplicemente rispettare la più importante. E per il resto, in bocca al lupo Michele.

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