Sarà stato anche di regime, però che cinema!

Solo un ignorante o uno in malafede può negare la grandezza raggiunta dal cinema italiano sotto il Ventennio. Chi scrive non ha alcuna simpatia per quel regime, con chi si dice suo erede, e a quella tradizione si richiama. Ma ha ragione da vendere Maurizio Cabona quando sottolinea il grande debito che il Cinema deve a “quel” Cinema. Ho avuto modo di rendermene pienamente conto anni fa, quando al Festival di Locarno, nell’ambito di una retrospettiva dedicata al «peplum all’italiana», ebbi modo di vedere Scipione l’Africano, film di Carmine Gallone del 1937. Film superbo, impeccabile dal punto di vista tecnico: fantastiche le scene di massa, realizzate senza effetti speciali, utilizzo di computer e di altre diavolerie dell'oggi. Film dichiaratamente di regime, certo: con un Annibale che ha le fattezze dell’etiope Menelik e un soldato romano che a un certo punto se ne esce con: «Noi legionari, reduci della Spagna e ora combattenti in Africa», e via un profluvio di fasci littori... Del resto, Mussolini in persona commissionò il film: che esalta il culto del Capo, e l’idea di coraggio e patriottismo. Ma tutto questo non offusca o intacca minimamente la qualità dell’opera, un piccolo capolavoro, e certamente un classico. Un altro piccolo capolavoro visto, sempre a Locarno, è Inviati speciali di Romolo Marcellini, del ’43, in piena guerra; eppure è straordinario come l’industria cinematografica pure in quei giorni sapesse realizzare opere di quel calibro. La sceneggiatura è di Giuseppe Castelletti, Alberto Consiglio, Ennio Flaiano, Asvero Gravelli e Virgilio Lilli. La storia è ambientata nel 1936, un gruppo di giornalisti che racconta la guerra civile. Anche questo un film di regime: il giornalista italiano s’innamora di una collega americana che si rivela essere una spia al soldo dei comunisti sovietici. Un film, se si vuole, ingenuo nel descrivere l’ambiente dei corrispondenti di guerra, che fa ampie concessioni più all’idea che ci si poteva fare del giornalista che della realtà effettuale. Però, anche qui: considerati i tempi e i mezzi a disposizione, che film!, al di là dell’aspetto propagandistico. Indubbiamente Mussolini aveva benissimo compreso che straordinario strumento di consenso poteva essere il cinema e in genere la macchina da presa. Basterebbe, a documentarlo, la cura perfetta che dedicò in occasione di un’intervista televisiva destinata al pubblico americano. Intervista dove Mussolini parla in un inglese più che accettabile, lingua che peraltro non conosceva e dunque aveva imparato a memoria le risposte. «La cinematografia è l’arma più forte», fece scrivere in occasione dell’inaugurazione di Cinecittà. I dittatori questo lo avevano perfettamente compreso, da Stalin a Hitler (che utilizzò a fondo le capacità artistiche della Riefenstahl).

È «la materializzazione dell’illusione, strumento artistico in grado di adattare per lo schermo, in maniera completamente sensibile, la dialettica dei dibattiti ideologici in forma pura», teorizzò Sergej M. Ejzenstejn. La si metta come si vuole e si crede: ma ai “telefoni bianchi” (o “neri”) il cinema italiano deve tutto o quasi.

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