Amsterdam - «Diciamo che sono un tipo impertinente». E innanzitutto presentiamola, questa Sara Bareilles così impertinente: è la candidata ad essere la prossima rivelazione pop. Oddio, nei suoi Stati Uniti lo è già stata, visto che il suo singolo Love song ha venduto oltre due milioni di copie e il cd Little voice ne ha totalizzato quasi uno soltanto là, diventando il titolo più scaricato su iTunes. «Mamma mia, una sorpresa che non mi aspettavo proprio», dice lei che ha ancora il fiatone dopo un breve concerto in un localino niente male qui ad Amsterdam, il microscopico Sugar Factory. Cinque canzoni, grande atmosfera. Adesso è l’Italia ad aspettare Sara Bareilles: il suo album uscirà anche qui da noi il 9 maggio e c’è da scommetterci che il folk pop di questa stralunata californiana lascerà il segno. D’altronde lo sta già facendo il singolo, che è in rotazione su Mtv e comincia a fare il suo corso anche l’immancabile passaparola del web. Tutti a chiedersi: chi è Sara Bareilles? Presto detto: è una ventinovenne di Eureka, California che viaggia sul filo teso tra Norah Jones e Fiona Apple. Ossia: canzoni acustiche per piano e voce, molta riflessione, tanti riferimenti alla quotidianità. Insomma, lo specchio dei tempi: meno glamour, più contenuti che alla fine interessano tutti e pazienza se non sono fatti apposta per le pagine scintillanti dei rotocalchi pettegoli.
Sara Bareilles, negli Usa è già una piccola stella: dicono che sia il volto serio del pop.
«Serio? No, sono il volto onesto del pop».
Vuol dire che c’è anche quello disonesto?
«No, voglio dire che io ci metto l’anima seriamente, sono soltanto quello che vedete ed ascoltate. Non ci sono trucchi, non ci sono giochetti».
Ma in una sua canzone dice «no fame, no money» (se non si è famosi, non si guadagna). È quello a cui punta?
«Dalle mie parti a una domanda del genere si risponde così: “guarda che non ho ancora cambiato macchina”. Come a dire che, nonostante abbia già avuto un po’ di successo e la gente mi riconosca per la strada, io sono rimasta quella di sempre. E credo che sarà così per un bel pezzo. So come sono fatta, proprio in Italia ho imparato a conoscere i miei limiti».
Prego?
«Ho frequentato per un anno un master alla facoltà di Scienze della Comunicazione di Bologna. Era il 2001, credo. Mi ricordo due cose: di sicura una è il cibo. In Italia si mangia così bene che sono ingrassata di quasi dieci chili».
E la seconda?
«È la musica. Io sono arrivata in Italia e per la prima volta nella mia vita ho imparato che cos’è la solitudine. Ero dalla parte opposta al mio mondo, senza nessuno che mi conoscesse. Diciamo che in questa solitudine ho capito che la musica era il mio futuro».
Addirittura.
«Scrivo canzoni da quando ho sei anni, ma non l’avevo mai fatto seriamente. Pensa, quando sono arrivata in Italia, non avevo neanche uno strumento con me: solo qualche mese dopo mi sono fatta spedire una tastiera da mio padre. Là nella mia stanzetta di Bologna ho provato il bisogno di sedermi a scrivere canzoni. Ho capito che la musica mi faceva stare meglio. E i cantanti italiani sono stati decisivi: pochi al mondo sono altrettanto capaci di trasmettere emozioni».
Forza, faccia qualche nome.
«I primi che mi colpirono furono i Lunapop. Poi di sicuro Eros Ramazzotti, Tiromancino, Carmen Consoli e Francesco Guccini. Non li avevo mai sentiti prima, sono stati una scoperta».
Lei da chi è stata influenzata musicalmente?
«Senz’altro da Joni Mitchell. Ma i Radiohead o Bjork o i Police mi hanno aiutato a crescere, mentre uno come Elton John mi ha fatto capire che il pop può essere davvero intelligente e curioso. Però di sicuro quando ascolto Etta James o Sam Cooke rimpiango di non essere nata 50 anni fa».
Magari non avrebbe potuto fare la cantante pop.
«E di sicuro avrei fatto fatica ad essere così introspettiva come sono adesso».
E polemica.
«No, non è vero. È un divertimento su di un certo modo di intendere le canzoni d’amore, ma niente di più».
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