M’è capitato tante volte d’essere accusato di scarsa deferenza nei confronti della Resistenza. Ho sempre scritto - anche ieri, nella mia «stanza» - che il suo apporto alla guerra dal punto di vista militare fu insignificante. Tanto basta per mandare su tutte le furie coloro che amano favoleggiare d’una Italia del ventennio percorsa da fervidi slanci democratici, e del suo insorgere con compattezza eroica contro gli oppressori nazifascisti.
Sul tema non cambio idea. Ma sento il dovere di difendere la Resistenza dalle manovrette di chi spregiudicatamente vuole appropriarsene per i suoi scopi di bassa polemica. Volendo difendere, in questa occasione, la Resistenza devo occuparmi di Marco Travaglio. Ne avrei fatto volentieri a meno, penso che la Penisola soffra d’una overdose di travaglismo. L’estasi degli ammiratori quando il Sommo si offre, in Annozero, in tutto il fulgore del suo profilo trova riscontro solo nelle manifestazioni dei più famosi santuari, e alla Mecca.
Ma il Travaglio che in questa specifica occasione m’interessa non è il predicatore del rito santoriano. È il giornalista della carta stampata: trasmigrato dall’Unità al Fatto. Proprio questo quotidiano ha pubblicato ieri un articolo di Travaglio che aveva per titolo «Resistenza, siamo al completo». Resistenza con la erre maiuscola e dunque in tutto e per tutto assimilabile, si direbbe, a quella che con luci e ombre, ma in tempi alti - di grandi eroismi, di grandi tragedie, e se volete anche di grandi crudeltà e viltà - si batté contro l’occupante. M’è bastato leggere poche righe per capire che la resistenza evocata da Travaglio era con la erre minuscola e moscia, era non la Resistenza fiera e magari spietata di chi rischiava la vita, ma la resistenziuccia de noantri, con l’eterna e ormai stucchevole polemicuzza contro Silvio Berlusconi e con gli immancabili gridi di dolore per una libertà di stampa - o, tout court, per una democrazia - che agonizzerebbero sotto il tallone di ferro del Cavaliere.
La legione sacra degli irriducibili lotta perché il liberticidio non si avveri. Travaglio avverte, a ogni buon conto, che i partigiani dell’antiberlusconismo sono stati già registrati, e che non saranno tollerati ingressi tardivi e opportunistici. «Forse - ammonisce Travaglio - è il caso di stabilire una scadenza e un numero chiuso per la Resistenza». Niente «Galeazziciano all’amatriciana» e il riferimento è al genero del Duce che firmò il documento da cui derivò la caduta del fascismo.
C’è qualcosa di intimidatorio, nel tono di Travaglio. I puri e duri si sono sempre opposti alla contaminazione delle loro file. La resistenza de noantri sporge il petto in fuori, gli eletti ritengono d’essere eroici e intrepidi mentre sfornano a ritmo incessante volumi che raccolgono atti giudiziari generosamente elargiti dalle procure, e mentre si rivolgono a milioni di italiani, con il loro arsenale di atti e faldoni, dagli schermi della Rai. «Astenersi perditempo e voltagabbana» intima il savonarola piemontese.
Il giorno del giudizio è già arrivato. I resistentini occupano comode poltrone e incassano laute prebende lamentando l’impossibilità, per chi come loro abbia in gran dispetto il Cavaliere, di esprimersi liberamente. In effetti dove potrebbero mai mettere nero su bianco i loro pensieri in un Paese dove le testate quotidiane a impronta antiberlusconiana sono soltanto nove? (Repubblica, Unità, Europa, Manifesto, Liberazione, Riformista, Altro, Terra, Il Fatto). Due di queste testate vanno ricondotte al Pd, quattro sono espressioni d’un partito o partitino, due hanno un’etichetta comunista.
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