Sport

Scariolo: «Spagna mondiale nata a scuola»

«Il trionfo iridato frutto di una generazione fantastica e dello sport che si fa tra i banchi»

Francesco Rizzo

Nello sport va di moda la Spagna. Vince i mondiali di basket, brilla nel tennis con Nadal bello e bravo, romba su due e quattro ruote con Pedrosa e Alonso. Ma c’è anche qualche italiano che va di moda in Spagna, e non solo nel calcio: Andrea Anastasi allena la nazionale di volley, nel nuoto ci hanno «rubato» Maurizio Conconi per plasmare i loro campioni di domani. E nel basket c’è Sergio Scariolo, bresciano 45enne, primo tecnico straniero a vincere il titolo spagnolo con due club diversi, al Real Madrid nel 2000 e, pochi mesi fa, a Malaga, dove si contano quasi 10.000 tifosi abbonati e altri 2.500 in lista d’attesa. Uno dei motivi per cui Scariolo, in Spagna da 9 anni, ancora non torna.
Come è stato vissuto il successo giapponese di domenica?
«Con passione calcistica. Maxischermi in alcune piazze, caroselli d’auto… Una tv nazionale in chiaro ha mandato in onda i mondiali fin dall’inizio, ogni giorno dalle 6 di mattina alle 4 del pomeriggio. Qui il basket ha un seguito che in Europa si trova, forse, solo in Grecia».
Da dove nasce tanta passione?
«È una tradizione che viene da lontano: c’è l’inevitabile interesse generato dalle polisportive Real Madrid e Barcellona ma ci sono pure città di media grandezza “malate”di basket, come Vitoria e altre. C’è una voglia di sport così grande che il calcio non occupa tutto lo spazio».
E se poi si vince il mondiale...
«La sorpresa non è stato il successo ottenuto senza l’Mvp del torneo Pau Gasol in finale ma il modo schiacciante in cui è maturato. Parliamo di una squadra ricchissima di talento che ha mostrato giocatori competitivi perché allenati alle grandi sfide in Europa».
Questa Spagna ha nove giocatori su dodici nati fra l’80 e l’86.
«Si tratta di una generazione fantastica ma è anche il frutto dell’attività giovanile, diffusa ed efficace. Il segreto è che lo sport è molto presente nelle scuole. Ci sono discipline in cui, fino a una certa età, molte società fanno un’attività ridotta perché tanto ci pensa la scuola dell’obbligo: dove, ad esempio, il sabato mattina non ci sono lezioni e spesso quello è uno spazio dedicato allo sport. Infine c’è una tradizione di college dove si studia e si fa attività agonistica».
Ma poi, se un giovane talento del basket arriva in prima squadra, deve poter giocare...
«Gioca chi merita ma a parità di talento fra uno spagnolo e uno straniero, io scelgo uno spagnolo, anche solo per l’interesse con cui risponde il pubblico. La differenza, rispetto all’Italia, non è tanto nelle norme sull’utilizzo dei giocatori indigeni rispetto agli stranieri ma nel lavoro per formarli. Anche in Italia ci sono giovani interessanti: devono poter crescere con continuità».
L’Italia cosa può importare?
«Nel basket, le sinergie con la scuola e la compattezza fra i club. Il campionato spagnolo colpisce per organizzazione, interesse di tv e stampa, un dato come i 7500 spettatori di media alle partite. Ci sono sponsor legati ai club da molti anni, radicati a fondo nel basket locale».
Da quelle parti non solo il basket ha successo, però...
«Il momento economico è favorevole e aiuta.

Ma tutta la società spagnola è in evoluzione: crescono professionalità e tecnologia senza che si perda la voglia di fare bene le cose divertendosi, tipica di qui».

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