«Per le scarpe italiane servono i dazi»

«Chiediamo anche il ripristino delle quote e delle provenienze»

Paolo Stefanato

da Milano

I numeri delle calzature italiane sono tutti in calo e aumentano, in simmetria, le preoccupazioni per un settore tipico dell’industria italiana. Cala la produzione (meno 7,4%), calano i valori (meno 3,6%), calano le esportazioni (meno 6,1%), calano gli occupati (meno 8mila su una filiera che ne conta 250mila). Cresce una cosa sola: il dato delle importazioni, più 15,8% in quantità, con una diminuzione dei prezzi medi dell’8,4%. Le calzature in entrata sono state 311 milioni di paia e per la prima volta hanno superato quelle in uscita, 279 milioni. L’«aggressore» ha un nome solo, lo stesso che sta forzando la tenuta di buona parte dell’industria italiana ed europea: si chiama Cina.
Rossano Soldini, presidente dell’Anci, l’associazione di categoria che ieri ha tenuto la propria assemblea, è convinto che ormai non si tratta «di ridurre l’Irap o il costo dell’energia. Non si risolvono così i problemi. La Cina fa dumping e concorrenza sleale, la produzione in Italia va tutelata e le misure devono essere incisive e a livello europeo».
Che cosa chiedete?
«Un marchio di origine obbligatorio, per dare certezza al consumatore. L’attivazione di procedure antidumping e il ripristino delle quote».
Insomma, volete i dazi
«Non c’è da vergognarsi. Negli Stati Uniti li hanno introdotti in due giorni per salvare 16mila posti, noi ne abbiamo persi 8mila e non abbiamo reagito. Mercoledì manifesteremo a Bruxelles, con i calzaturieri degli altri Paesi europei. Le procedure di salvaguardia possono scattare se le importazioni crescono del 15%: in 4 mesi dalla Cina sono salite del 715%!»
Ma ha senso indurre dazi su prodotti che costano così poco? Il prezzo resterebbe comunque più conveniente...
«I cinesi stanno entrando nel segmento delle scarpe in pelle, una nostra tipicità. Vendono a 12 euro quello che noi non possiamo vendere a meno di 30, ma i costi della materia prima sono identici, 14 euro, perché comperiamo i pellami sugli stessi mercati, agli stessi prezzi: questo vuol dire che vendono sottocosto. Dobbiamo ripristinare i tetti alle importazioni. Quanto ai dazi, basterebbe un 40% a ridarci competitività».
Come sono le scarpe cinesi in pelle?
«Sono belle, i cinesi lavorano bene. Ma tra i tanti vantaggi hanno anche una moneta svalutata e rimborsi alle esportazioni: capisce che è concorrenza sleale?».
È vero che ci sono suoi colleghi italiani che producono in Romania e marchiano «made in Italy»?
«Evidentemente la produzione prevalente è in Italia, se no diventa frode».
Non sono anche quelli «concorrenti sleali»?
«In libertà economica ognuno fa quello che vuole, rispettando le regole».


E i cinesi?
«Loro le regole non le rispettano».
Quanti posti sono a rischio in Italia?
«Trentamila nel 2005».
C’è qualcuno di voi che esporta in Cina?
«Nel 2004 sono state vendute 185mila paia di scarpe italiane».
Non è un po’ poco?
«Niente!».

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