da Milano
Lunedì della scorsa settimana, al telefonino, gongolava: «I am the king of Carinzia», sono il re della Carinzia, ripeteva in un inglese scolastico ma limpido. Jörg Haider interrompeva spesso l’intervista e seppelliva le parole sotto una risata. Trasmetteva orgoglio e sarcasmo: lui, che era considerato un ingombrante relitto, era appena riuscito a triplicare i voti del suo piccolo partito, la Bzoe, fondato nel 2005, e aveva spiazzato i suoi nemici riconquistando il centro della scena politica austriaca. Già raggiunta nel ’99. «Dopo quella di Lazzaro - mi aveva detto - credo che la mia sia la risurrezione più clamorosa nella storia». E aveva condito le sue parole con una nuova risata. Il ritorno di Haider è durato meno di due settimane ed è finito ieri notte a pochi chilometri da Klagenfurt, quando la sua Volkswagen Phaeton - l’auto più sicura del mondo, secondo alcuni esperti - è uscita di strada, forse per l’alta velocità, si è capovolta, è andata a sbattere contro un pilone di cemento armato. Fine della corsa, a cinquantotto anni.
Nel dicembre scorso mi aveva ricevuto nel luminoso palazzo del governatore a Klagenfurt. Indossava gli stivaletti neri, era abbronzato, i suoi magnetici occhi azzurri mi scrutavano. Gli feci notare che tutti gli intellettuali e i grandi giornali europei parlavano male di lui, quindi doveva essere un personaggio interessante. Rispose con cenno affermativo del capo, gli occhi disegnarono la ruota del pavone, si rilassò e iniziò a parlare con calma, senza mai guardare l’orologio. A dicembre nessuno scommetteva sul suo ritorno, lui invece era sicuro: «Forse sono una meteora, forse, se posso permettermi una battuta sul Natale, una cometa». Dalle scale saliva una dolcissima melodia. Alcuni collaboratori entravano e uscivano dalla stanza senza neanche bussare, si capiva che il governatore era un uomo senza etichette, diretto. «A Vienna - aveva aggiunto - la coalizione fra popolari e socialisti va male. Stiamo a vedere». Come dire, ne riparliamo fra qualche mese. Previsione azzeccata.
La Grosse Koalition austriaca si è sfaldata e a fine settembre gli austriaci sono tornati alle urne. Regalando ad Haider il 10,7 per cento e al suo vecchio partito, la Fpoe ora nelle mani di Heinz Christian Strache, il 17,5 per cento. Numeri da brivido che hanno trasformato l’Austria in un rompicapo. «Io - mi aveva spiegato - vedo due soluzioni: un governo in cui entrino i popolari, noi e la destra radicale di Strache». Una destra più destra della sua. «Oppure un’altra coalizione con i socialisti, i verdi e il sottoscritto». Mandando all’aria tutti gli schemi dei palazzi viennesi. Seriosi e sonnacchiosi.
Haider era così: imprevedibile. Come tutti i leader di grande carisma, se ne infischiava delle formule e degli equilibrismi dei politici di professione; lui captava con le sue sensibilissime antenne gli umori dell’Austria profonda, a disagio dopo l’ingresso in Europa e smarrita per le continue ondate di immigrati. Lui, lui figlio di un ciabattino che aveva combattuto nelle truppe d’assalto naziste, lui che si era dovuto dimettere una prima volta da governatore nel ’91 per aver lodato la «giusta politica di occupazione del Terzo Reich», lui sapeva come fare: «Nel 1993 - mi aveva detto sfoderando un sorriso giovanile - io proposi dodici punti sul tema dell’immigrazione. Al primo posto c’erano leggi severe per chi entrava nel nostro Paese. Tutti i partiti mi dipinsero come Belzebù. Le tv, i sindacati, la Chiesa mi attaccarono. Oggi quei dodici punti sono patrimonio di tutta la classe politica». E ancora: «Io non sono né di destra né di sinistra, io sono avanti». In realtà era di destra, ma aveva temprato i rigurgiti xenofobi degli anni Novanta, quando aveva raggiunto la stratosferica percentuale del 27 per cento: «Nel partito liberale, la Fpoe, c’era chi voleva chiudere gli immigrati nei vagoni ferroviari e rispedirli in patria. Per questo nel 2005 ho fondato la Bzoe, L’Alleanza per il futuro austriaco, e ho rotto con gli estremismi».
Certo, ora che la pallina della politica si era fermata di nuovo sulla sua casella, gli intellettuali si affannavano ancora a prendergli le misure, ma lui non stava ad ascoltarli. Si smarcava, forte del suo formidabile fiuto: «Ripetono sempre le stesse accuse - mi aveva spiegato nell’ultima conversazione - per eliminarmi dalla scena. Non siamo vicini al Fronte nazionale di Le Pen, semmai, per certi aspetti, alla Lega». Ce l’aveva con i «clandestini», parola scandita più volte in italiano, ma aveva accolto a braccia aperte i turchi che sgobbavano e pagavano le tasse: «I loro figli studiano il tedesco e la Carinzia finanzia questo programma di istruzione».
Gli altri discutevano, lui pensava in grande: «Spero che ci diano il ministero della Giustizia, così risolveremo il problema dei criminali stranieri che intasano le nostre prigioni». Aveva un pacchetto di idee ruvide ma chiare, si era fatto fotografare con cucchiaio colmo di miele mentre imboccava un orso bruno, amava i maglioni a collo alto e i giubbotti di pelle, da telefilm poliziesco.
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