SCHWOB Il rovescio dell’anima

A cent’anni dalla morte, due libri «riscoperti» rilanciano la letteratura fantastica e la critica narrativa dello scrittore francese

Narrativa di erudizione, ma non solo; racconti brevi del fantastico più puro, nell’invenzione di mondi che vivono in angoli remoti della mente, e affiorano a tratti in paesaggi incantati, in città addormentate in riva al mare, in treni fantasmatici che fendono la nebbia notturna, o nelle maschere informi di esseri che hanno perduto il volto, e si piegano docili al loro destino di tragici calchi.
L’idea del doppio, del rovescio oscuro delle cose, e degli animi, è motivo portante nell’intera narrativa di Marcel Schwob (1867-1905), lo scrittore francese, soprattutto noto per le sue Vite immaginarie, morto trentasettenne esattamente cento anni fa, e il cui anniversario è ricordato in Italia da due raccolte di recente uscita, Cuore doppio (Edizioni Kami, pagg. 170, euro 13) e La porta dei sogni (Avagliano, pagg. 232, euro 13). Va anche rammentata l’antologia Il racconto fantastico francese (Marsilio, pagg. 334, euro 9), che contiene, tra quelli di altri autori, tre dei suoi racconti più belli, tratti da Cœur double - «Il treno 081» e «L’uomo velato» - e da Le roi au masque d’or - «La città addormentata». E se Cœur double è una raccolta d’autore, uscita per la prima volta nel 1891, il libro La porta dei sogni (già titolo di una silloge del 1899), riunisce novelle e testi di narrazione critica (non uso a caso questa espressione, piuttosto che il termine «saggi») appartenenti a vari volumi: Spicilège, ancora Cœur double, o «ripescati», nell’edizione francese di riferimento, da riviste dell’epoca. E per questo soffre di una certa incoerenza strutturale.
Lettore onnivoro, Marcel Schwob, allevato letteralmente tra i libri da uno zio che lavorava alla Bibliothèque Mazarine (ma scrittore era anche il padre, amico di Flaubert, Baudelaire e Verne), apprende presto a muoversi tra gli scaffali e i loro tesori letterari, filosofici, scientifici, linguistici. Impara a fondo alcune lingue, antiche (traduce Catullo e Luciano), moderne (sarà traduttore di Moll Flanders di Defoe) e modernissime, anzi in continua metamorfosi, come l’argot, al quale dedica un lungo saggio. È curioso di astrologia, di scienze occulte, com’era nel gusto dell’epoca - ed è forse il lato che non lo ha fatto dimenticare, in Francia sono più d’uno gli Schwob Club. Ma è soprattutto affascinato dalle singole personalità - siano esse di scrittori (gli amati Villon o Stevenson) o di briganti o di filosofi. «La scienza storica ci lascia nell’incertezza, sugli individui», scrive nella prefazione alle Vite: che sono unici e irripetibili, e dovere dell’arte è di porsi «dalla parte opposta delle idee generali, non descrivere che l’indescrivibile, non desiderare che l’unico. Essa non classifica, sclassifica». E le sue Vite immaginarie sono una galleria di ritratti «unici», da Empedocle ai «Signori Burke e Hare, assassini». Ciò che gli sta a cuore è penetrare gli aspetti più sordidi dell’esistenza, indagare là dove convivono gli opposti (il suo «uomo doppio», appunto), dal quale connubio, e stridore, sorgono non di rado le maggiori prove. Questa è per lui la figura di François Villon, studiata a più riprese nel corso della vita; per concludere che «non fu affatto un’anima bella. Fu un grande poeta. In un secolo in cui solo la forza, il potere e il coraggio avevano qualche valore, lui fu piccolo, fiacco, vile, bugiardo. Se fu particolarmente perverso è da questa perversità che sono nati i suoi più bei versi» («François Villon», ne La porta dei sogni).
Per un periodo Schwob fu punto di riferimento per gli scrittori della sua generazione, da Renard a Claudel, da Jarry a Gide, a Léautaud a Remy de Gourmont, e partecipò alla rutilante vita parigina fin-de-siècle, marito invidiato dell’attrice Marguerite Moreno, prima di ritirarsi in volontaria reclusione, preda di un grave malessere, un’ipocondria che gli vietava ormai la luce esterna, e la propria stessa immagine, che non tollerava di vedere riflessa (nel racconto fulminante «L’origine» il protagonista, temendo di avere ereditato la lebbra, ha orrore degli specchi).
Leggendo le sue novelle di una misura perfetta, squarci di esistenze sognate, di ambientazioni respinte in un luogo senza tempo, e sovente sinistre, quando, come in Villon, «il lupo vive di vento», ben possiamo applicargli la sua definizione dello stesso Villon: colui che «faceva parlare e gridare le cose». Che appaiono unite da misteriosi legami, vivono la loro vita segreta, come la casa chiusa dell’omonimo racconto, che «invece di dare la sua ombra al sole, la beveva». Così i suoi personaggi sono per lo più fatti d’ombra, creature lacerate che sembrano espiare una colpa innominabile, «fantasmi della verità, allucinati come veri fantasmi», ma in qualche modo «quintessenza della realtà» (questo scrive Schwob di Stevenson, nel La porta del sogni).
Le sue donne sono prostrate da un confuso dolore, compiono gesti di ritualità antica, e atti di cui esse solo sanno il significato; conoscono la precoce morte del corpo, in cambio di un eterno fulgore dell’anima: come le tante donne di Poe, a cui dichiaratamente Schwob si richiama. Sono la Beatrice, la Lilith di Cuore doppio, veri e propri racconti alla Poe. Donne di una perversa allegria, anche, come la donnina di «Senza-faccia», o l’Arachne che sugge la vita del protagonista frugando senza posa nel suo petto col rostro appuntito: sorella del «ragno della specie grande» di Lautréamont, dell’Horla di Maupassant, fino alla creatura invisibile del Bacio di Landolfi. Ma dei fantasmi propriamente detti, delle sanguinose o scheletriche apparizioni che abitano tanta letteratura ottocentesca, Schwob si faceva invece beffe, costruendovi racconti di una dissacrante ironia, come «Spiritismo» o «Uno scheletro» in Cuore doppio.
In maniera più evidente dinanzi a testi come «La città addormentata», o «Vita di Morphiel demiurgo» (ne La porta dei sogni), ma anche a tanti altri, si comprende appieno perché Borges si dichiarasse figlio di Schwob: la letteratura dello scrittore francese è un’immensa biblioteca, e medesima la vocazione a riconoscere e inventariare il mondo con gli occhi dell’immaginazione; medesima, talvolta, la tendenza didascalica o argomentativa, che può zavorrare la pagina. A Schwob appartengono piccoli trattati, come quello sul riso, o sull’arte, narrazioni di ambientazione classica, disquisizioni alla Platone.

E allora si placa il combattimento «con gli esseri fantastici che nascono nelle stanze segrete del nostro cuore e della nostra mente» (Ibsen citato da Schwob), scende per un poco l’alta temperatura della pagina, e la letteratura assume la sua funzione salvifica, evitando forse allo scrittore quell’uscita da sé che non conosce ritorno.

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