La scienza uccide le ragioni del cuore

L'ideologia neonaturalistica pensa all'uomo come a una macchina. E dimentica lo spirito. Non esistono computer che desiderano l'assoluto o la trascendenza

La ricerca della verità, probabilmente per la consapevolezza di non poterla mai raggiungere né possedere, è da sempre uno degli obiettivi del pensiero degli esseri umani. Nell’epoca attuale, sembra che la sola via per l’accesso a una qualche verità sia garantita dal sapere scientifico, in quanto sapere «efficace» e attendibile; la verità è divenuta oggetto di un sapere dichiarativo, che pronuncia statuti di corrispondenza immediati tra parola e cosa, perdendo l’antica dimensione di tensione interrogante e mistero inspiegabile.
Persino l’essere umano viene ridotto a un mero ricettore e trasmettitore di impulsi elettrici e chimici: il cervello come computer, il corpo umano come macchina, i cui componenti possono essere sostituiti da microchip e dispositivi bioingegneristici. Ma è pura ideologia neonaturalistica sostenere che gli esseri umani possano essere descritti scientificamente come automi pensanti. Un tale cieco meccanicismo lascia fuori elementi, come la felicità e il dolore, che non sono spiegabili secondo il discorso scientifico.
Come conseguenza estrema della volontà di uccidere Dio, oggi, con le teorie post-umane, neuroscientiste e cognitiviste, siamo di fronte a un tentativo di «uccidere l’uomo», mettendo in crisi la dimensione della «soggettività» che ne ha accompagnato la vicenda storica. Ma nessun isomorfismo tra vivente umano e organismi post-umani potrà mai cancellare l’angoscia dell’interrogazione e dell’istituzione della coscienza, che ci è stata tramandata, nei secoli, da poeti e filosofi.
Affinché gli esseri umani ritrovino il senso della propria identità spirituale e della propria vocazione storica, è necessario, come sosteneva Simone Weil, che ritorni in campo il discorso dell’amore e della verità che cerca la bellezza e il bene, al di là dei limiti dell’utile. Nella vita concreta, la verità è sempre assoluta, ma proprio per questo trascende sempre la situazione concreta; è una misteriosa sensazione di aderenza al mondo e di condivisione di affetti che si può solo provare, senza trasformarla in un concetto.
L’esperienza della «vita che si sa», per usare le suggestive parole di María Zambrano, è immanenza che si autotrascende per necessità, inscritta nel codice degli esseri umani; ma si rischia di smarrirla se la corazza dei concetti appare più appetibile per il quieto vivere dell’individuo conformista. Solo il recupero dell’intima connessione tra esperienza e pensiero può restituire dinamismo creativo a un’epoca divenuta incapace di pensare e di sentire.
Questo è possibile solo con il «sapere affettivo», un sapere che attiene alle trasformazioni soggettive e alle relazioni, attraverso cui l’individuo può aprirsi a una nuova visione, in cui la propria dimensione personale sia sottratta al calcolo delle utilità.
Se si vuole evadere dalla prigione della solitudine e dall’angoscia della morte, bisogna consegnarsi all’incontro con l’altro completamente disarmati. Offrire l’altra guancia non è un principio etico, ma una conquista «filosofica», l’abbandono della pretesa dell’io onnipotente di poter influire sulla vita degli altri in forza della propria autorità e dei propri argomenti.
Quello che mi piace definire «discorso inutile» è un discorso interattivo, in cui non è possibile distinguere chi dona da chi riceve, è un discorso che tende a trasformarsi in dialogo creativo su una nuova visione delle cose, in cui sperimentare la capacità co/creativa degli esseri umani e la loro attitudine ai processi di interiorizzazione affettiva, è un discorso con cui aprirsi alla costruzione di un nuovo spazio mentale, in cui si manifestano percezioni ed elaborazioni altrimenti impossibili e si avvertono emozioni che non si possono provare in solitudine. Perché questo sia possibile, bisogna fare un esercizio su se stessi molto forte, che mi piace definire «arte di disarmarsi»: cominciare ad aprire la propria armatura caratteriale per lasciare entrare i significati dell’altro e lasciare uscire i propri.
La «verità» dell’incontro trascende ogni norma, è l’incontro stesso, ma affinché accada bisogna spogliarsi di ogni pregiudizio: l’«arte di disarmarsi» è la trasformazione delle proprie resistenze in domande aperte all’interrogazione su se stessi e il mondo. La persona di Cristo è un esempio vivente di quello che definisco il «disarmo»: la forza di chi si mette a disposizione degli altri e si lascia crocifiggere per testimoniare che la vita si salva se la si perde.
L’essere umano non è mai la propria autorappresentazione, non è soltanto ciò che pensa di essere né soltanto la rappresentazione che dà agli altri; ciascuno è il contenitore del proprio racconto e del proprio desiderio che proietta verso il futuro. Ma l’attuale società del godimento immediato, dell’immediatezza senza svelamento che cancella ogni oltremondano, distrugge il desiderio, nella sua insaturabilità, in quel non poter essere soddisfatto che costituisce la spinta in avanti per la sua realizzazione.
L’incontro è un evento, è l’improvviso sconfinamento di sé dentro l’altro che si ha di fronte, è l’immediata risposta positiva a una disponibilità, nella gratuità assoluta, è la comunicazione della psiche: riuscire a pensare i pensieri dell’altro, pensare l’altro come una parte di sé in cui ripercorrere quello che si ha dentro. Dall’esperienza dell’incontro rinasce la capacità di creare nuovi universi simbolici e nuovi orizzonti di senso.
Senza incontro, non può esserci nemmeno la presenza, che si costruisce soltanto in «comunione» con l’altro: è una mobilitazione affettiva, in cui le differenze si confrontano senza annullarsi, in un atto d’amore che istituisce un nuovo spazio mentale. Se si riesce a mantenere aperto il desiderio e non vivere la sua mancata realizzazione come una frustrazione, ma come una carica energetica, si vive la sensazione di essere presente, di esserci di per sé, di essere con se stessi in un modo talmente soddisfacente da potersi aprire all’altro.
Essere nudi di fronte al mondo, spogliarsi di tutto ciò che si utilizza per difendersi dalla possibilità che gli altri possano entrare: questa è la presenza, indispensabile presupposto dell’incontro. Non ci si può incontrare se non si è presenti, non si può essere presenti se ci si chiude nell’isolamento del monadismo. Per far circolare l’affettività, bisogna pensare alla mente dell’altro e alle sue rappresentazioni; costruire un percorso relazionale in cui, dando affettività, se ne riceve altra.
Solo con questa esperienza di incontro si può sentirsi pieni e pienamente presenti, rendersi responsabili della domanda che si riceve dall’altro e accogliere la domanda.

Siamo esseri fondamentalmente interroganti, perché vogliamo capire il senso dello stare al mondo, ma senza ascoltare l’altro l’interrogazione resterebbe sempre senza risposta.
*Docente di Filosofia
del diritto, Università
di Catania

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