Ho molto apprezzato la spasmodica prudenza con cui il signor presidente del Consiglio dei ministri ci ha voluto far sapere che le commissioni parlamentari devono fare il loro lavoro e non cercare di far paura agli avversari politici. Tuttavia, per quanto prudente fino a rasentare la crisi di nervi, una tale presa di posizione somiglia a quella di chi avverte che non sta bene derubare gli anziani o bollire i bambini durante le carestie. Ma Prodi tira in ballo i costi delle Commissioni e dice che «La commissione Mitrokhin è costata un sacco, come anche la commissione Telekom-Serbja. Bisogna riflettere, le commissioni parlamentari non possono essere strumentalizzate per abbattere gli avversari politici». E lì si sbaglia di grosso, perché la Commissione Mitrokhin è costata pochissimo rispetto alla Commissione Stragi (l’unica paragonabile per omogeneità) con la differenza che la Stragi non ha neanche prodotto una relazione finale, ma al massimo un interessante libro-intervista del suo presidente, mentre la Commissione Mitrokhin ha prodotto ben due relazioni: una discussa e approvata a maggioranza che è dunque un documento del Parlamento della Repubblica e una seconda che è rimasta una «relazione del Presidente» perché fu presentata a campagna elettorale aperta e tre commissari ritennero più importante la loro campagna e fecero mancare il numero legale. Ma anche quella seconda relazione porta le firme dei commissari ed è un documento del Parlamento.
Circolano poi da quando Scaramella è in prigione le notizie più stravaganti sulla Commissione. Adesso si discute seriamente del fatto che il consulente Scaramella non mi avrebbe avvertito del «diminuito pericolo» rispetto ad un possibile attentato, come se costui fosse stato, anziché un collaboratore della Commissione, un ufficiale di polizia. Scaramella per la verità non mi parlò mai di un attentato nei miei confronti, ma mi avvertì di aver passato alla polizia di Stato alcune informazioni da lui ricevute, credo da Litvinenko, sul transito del famoso camioncino ucraino che portava imprecisate armi.
Furono le agenzie di stampa a rendere noto il sequestro e gli arresti il 16 ottobre del 2005 e fu il cortese direttore del Mattino di Napoli ad avvertirmi con una telefonata amichevole che i suoi redattori presso la Procura avevano raccolto una voce secondo cui io avrei potuto essere l’obiettivo di un attentato. Al processo di Teramo ho udito di nuovo e più volte questa spiegazione, anche se nessuno me l’ha fornita ufficialmente. La notizia fu comunque pesante: le granate Rpg servono per far saltare una casa, una macchina blindata, un carro armato e io presi moglie e figli e li portai fuori dall’Italia per un paio di settimane. Presi atto del fatto che lo Stato mi aveva elevato la scorta al secondo livello come l’ambasciatore di Israele e sta di fatto che da tre anni vivo come un recluso agli arresti domiciliari.
Ma l’idea che il dottor Mario Scaramella dovesse, lui, avvertirmi del fatto che, non so in base a quali valutazioni, il rischio nei miei confronti dovesse considerarsi diminuito, mi appare strampalata e del tutto impropria: Scaramella non era il mio addetto alla sicurezza e poiché l’arresto degli ucraini e il sequestro delle granate furono operati dalla polizia di Stato, ho sempre pensato e ancora penso che siano la Polizia o gli organismi di intelligence a doversi occupare di queste faccende e non un consulente di Commissione parlamentare.
Ho trovato poi altrettanto bizzarra, per non dir altro, l’idea che possa essere stata considerata sbagliata la mia scelta, che al contrario rivendico come istituzionale e saggia, di non voler incontrare personalmente sia Alexander Litvinenko che qualsiasi altro dei russi che erano le fonti personali del consulente Mario Scaramella. Benissimo ho fatto perché così ho evitato, malgrado le sue insistenti richieste, di incontrare il tristemente famoso Eugenij Limarev che ha fornito la prima fabbricazione contro di me a Repubblica, dicendo di avermi incontrato e di aver avuto da me indicazioni sulla fabbricazione di dossier su esponenti politici.
Voglio anche a questo proposito essere chiaro ancora una volta: la Commissione Mitrokhin ha lavorato per quattro anni nel silenzio più sconfortante, compiendo un lavoro noiosissimo e serissimo e non si è mai e poi mai occupata di costruire dossier o comunque li si voglia chiamare sul conto di esponenti politici.
L’unico politico sul quale non ho redatto alcun «dossier» ma su cui viceversa ho indagato pubblicamente e alla luce del sole è stato Romano Prodi (ma per questioni meno rilevanti ci siamo occupati anche di Lamberto Dini e Massimo D’Alema nella loro qualità di Presidenti del Consiglio durante la gestione del dossier Mitrokhin) i cui comportamenti mi sembravano e mi sembrano tuttora degni di attenzione storica - non giudiziaria – sia per la cosiddetta «seduta spiritica» che fece scappare i brigatisti che avevano Moro, sia per il fatto che la società Nomisma a Mosca fosse in joint-venture direttamente con il braccio economico del Kgb, e poi per la benevola approvazione in corso d’opera del golpe contro Gorbaciov, per il fatto che il Sismi sotto la sua responsabilità di presidente del Consiglio violò le norme della legge 801 e non indagò mai sul materiale Mitrokhin e infine perché il povero Litvinenko (morto ammazzato) riferì che il suo amico ed ex capo Anatolij Trofimov (morto ammazzato anche lui) gli aveva sconsigliato di vivere in Italia «dove ci sono tantissimi politici legati al Kgb e dove Prodi è il nostro uomo».
Per carità, forse mi sbaglio, forse sono un visionario, ma indagando su questi aspetti della vita politica del professor Prodi io ho ritenuto di assolvere a quanto la legge 90 del 2002 prescriveva alla Commissione bicamerale parlamentare d’Inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’Intelligence italiana.
Quindi, mai furono costruiti dossier di sorta, ma semmai un esposto denuncia che io stesso un anno fa, il 22 dicembre 2005, portai con le mie mani a Palazzo di Giustizia a Piazzale Clodio di Roma e consegnai nelle mani del gentilissimo signor procuratore capo dott. Giovanni Ferrara, che poi provvide a inoltrare al Tribunale dei ministri e che, se ricordo bene, mi offrì un tè nel suo studio. Altro che sordidi dossier.
Quindi il presidente Prodi non ha di che lamentarsi: come lui stesso ricorderà, il 2 dicembre del 2005 io esposi tutte le ragioni che consideravo e considero valide per indagare su di lui in una emittente televisiva privata, la «Nessuno tv» che poi ho saputo da Cossiga essere molto vicina a Massimo D’Alema. In quell’occasione il professor Prodi annunciò una querela che poi la prudenza gli suggerì di non portare avanti.
Colgo l’occasione, l’ho già fatto una volta in chiave semiseria e lo faccio oggi in chiave serissima, per esprimere un dubbio: vuoi vedere che c’è qualcuno che aizzandomi contro i cani cerca di farmi inferocire per danneggiare proprio il professor Prodi e contribuire alla sua demolizione? Non è una domanda peregrina. Io credo che lo stesso professor Prodi dovrebbe porsela: la Commissione Mitrokhin era finita ed era silenziata, tutto taceva, tutto era calmo. Poi, l’uragano. Un caso? Certamente, spiega Gordievsky, non per caso Litvinenko fu avvelenato in modo tale da far passare proprio Scaramella per il suo assassino. Certamente non per caso Scaramella è stato illuminato come un topo in trappola e sbattuto in galera, udite udite, per aver calunniato un agente del Kgb che secondo lui ordiva attentati. Ora – sottopongo l’osservazione al prudente professor Prodi – ve l’immaginate voi un collaboratore della Commissione Stragi, quella che stabilì che ogni fatto di terrorismo dipese dalla Cia, arrestato e gettato nelle segrete di Regina Coeli per aver «calunniato» un agente della Cia? Suvvia, neanche la fantasia più perversa potrebbe mettere in scena un tale evento.
Invece oggi abbiamo Scaramella in galera per aver calunniato un uomo del Kgb, Litvinenko morto ammazzato e un fuoco di batteria di interviste prefabbricate e, alla verifica, più o meno false.
Adesso la novità del giorno sarebbe che io dovrei spiegare perché non volli ascoltare Alexander Litvinenko in Commissione Mitrokhin, dopo aver saggiamente scelto di non incontrarlo privatamente, perché questo sarebbe stato istituzionalmente inaccettabile. Ebbene, la ragione è che Alexander Litvinenko, che non era un collaboratore della Mitrokhin ma una fonte personale e privata di un collaboratore della Mitrokhin, non era un testimone diretto di nulla. Purtroppo, l’appena assassinato Litvinenko poteva soltanto citare l’appena assassinato Trofimov. Non sapeva nulla dell’Italia, ma sapeva che chi sapeva dell’Italia gli «aveva detto che». Inoltre, non c’era assolutamente il tempo e il modo, in chiusura dei lavori, di vincere le feroci resistenze dell’opposizione di sinistra nella Commissione e di convocare un Ufficio di Presidenza allargato, che a sua volta convocasse una assemblea generale.
La mia decisione da Presidente era e resta sovrana: io non devo né posso risponderne a nessuno. Ho agito secondo la mia coscienza e secondo la legge, fra l’altro proprio a tutela di Prodi e a tutela della Commissione che io non volevo fosse usata come strumento di campagna elettorale. Per questo, quando Mario Scaramella depositò i materiali che aveva elaborato e raccolto su Litvinenko e li portò, come era suo dovere, alla Commissione, io mi assunsi la responsabilità di fermarli all’Ufficio del protocollo segretandoli. E lì sono rimasti.
Ma accadde anche un fatto esterno, che ho già ricordato: il 3 aprile di quest’anno il deputato europeo britannico Gerald Batten chiese in una seduta pubblica una commissione d’inchiesta sui trascorsi di Prodi con l’Unione Sovietica citando il suo «elettore Alexander Litvinenko che mi ha riferito quel che gli disse il generale Trofimov e cioè che l’Italia è piena di politici collusi con il Kgb e che là Romano prodi è il nostro uomo». Questa uscita pubblica di Batten fu separata e indipendente dall’attività della Commissione Mitrokhin, anche se lo stesso Batten riferì nell’Europarlamento che Litvinenko aveva fornito le stesse informazioni anche al Parlamento italiano.
Dunque, ricapitolando, Scaramella non mi doveva dare alcuna informazione sul «livello» di pericolo, alto o basso, in cui mi trovavo; Litvinenko non fu da me incontrato per una scelta istituzionale; non fu possibile neanche iniziare una procedura di audizione per mancanza di tempo; non ritenni che le sue dichiarazioni, per quanto scioccanti sul «nostro uomo», dovessero essere date in pasto al pubblico essendo purtroppo indimostrabili.
Certo, aggiungo oggi, l’assassinio di Litvinenko e le sue modalità pongono la scena sotto altre luci e altre ombre.
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