Politica

La scomparsa di Sterpa Fondatore del «Giornale», ministro liberale e cronista fino alla fine

Aveva bruciato da giovanissimo nel giornalismo le tappe della carriera, ed era poi entrato in politica con passione civile, restando però il giornalista che è sempre stato. Egidio Sterpa, scomparso ieri a Milano all’età di 84 anni, riassume nella sua lunga vicenda personale e pubblica, una parte di storia del giornalismo e di storia nazionale comune alla sua generazione. Nel 1974 è stato tra i fondatori del Giornale, impegnandosi poi direttamente in politica, come fecero Enzo Bettiza e Cesare Zappulli, su impulso di Indro Montanelli, per affermare nell’attività parlamentare lo spirito dei valori di libertà, la ragion d’essere di questo quotidiano. Il suo approdo alla fondazione del Giornale era stato preceduto da un’attività professionale costellata di successo. Non ancora trentenne, negli anni Cinquanta era stato redattore capo de Il Tempo, allora maggior giornale della capitale e di peso nazionale, con grandi firme che lui, giovanissimo in plancia di comando, coordinava e stimolava: Curzio Malaparte, Virgilio Lilli, Enrico Falqui, Gianni Granzotto, Gianni Letta, Nantas Salvalaggio, per citarne solo alcuni. Passato al Corriere della Sera, divenne poi direttore del Corriere Lombardo, maggior giornale del pomeriggio a Milano, tornando quindi al Corriere stesso come inviato speciale, e di nuovo al Tempo quale vice direttore, con a fianco Gianni Letta, fino all’avventura del Giornale. Eletto alla Camera nel Partito liberale, e poi con Forza Italia, è rimasto in Parlamento fino a due anni fa, prima come deputato e poi, dopo essere stato consigliere comunale a Milano, come senatore di Forza Italia, essendo anche stato ministro nell’ultimo governo Andreotti.
Fin qui, la sua vita pubblica, nella quale aveva portato la sua personalità di uomo non facile, ma franco e leale. Al Giornale, talvolta, metteva in discussione con schiettezza, con Montanelli e il suo braccio destro Biazzi Vergani, alcune scelte editoriali. Quando se lo vedeva entrare nel suo studio, Montanelli cominciava a battere nervosamente il piede: sapeva che non andava a fargli complimenti. Nel Partito liberale, aveva contestato le tentazioni verso sinistra di Valerio Zanone. Con la nascita di Forza Italia, ha pubblicato per anni su queste pagine, con i successivi direttori, analisi non compiacenti, e una rubrica domenicale di vita politica e culturale su Milano, che amava molto. Il Cavaliere ne aveva profonda stima, e gli sollecitava spesso consigli. Da lontano. Era un uomo scomodo, che faceva tutto terribilmente sul serio: profondamente giornalista, non si è mai lasciato contagiare da una certa canaglieria del mestiere, non è mai scivolato dal distacco dell’osservatore al cinismo qualunquista. Credeva in quel che faceva, come quando, sedicenne, era stato uno dei balilla che andarono a Salò, per un allora senso dell’onore e del romantico cercar la bella morte: un’esperienza su cui, maturato poi nei valori di democrazia, si confrontò in un bel libro col partigiano Giorgio Bocca.
Lo spirito della libertà e del senso nazionale sono stati la sua guida di uomo, giornalista, politico, dai suoi lavori sulla questione meridionale all’ultimo suo libro, Storia della libertà: un itinerario intellettuale che appare ora quale estremo atto di fede in questi principi.

Quest’uomo così scomodo, a volte insopportabile, ci manca già.

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