La sconfitta dei giganti

Secondo la storiografia «ufficiale» la conquista islamica della Persia, allora sotto l’impero sasanide, avvenne dopo tre battaglie: quella del «ponte sull’Eufrate», in un luogo non meglio precisato ma in prossimità della confluenza con il Tigri, nel 637; quella di Qadisìa (o Kadisiyya) l’anno successivo; e lo scontro decisivo di Nehàvand nel 641 (o 642). Come si vede dalla cartina a lato, gli arabi musulmani si mossero da sud verso nord, freccia rossa. Al loro comando c’era Omar, «il signore dei credenti» (dal 634 al 644 secondo successore di Maometto, dopo Abu-Bekr) che aveva trasformato lo Stato nazionale arabo in un impero teocratico e aveva gettato le basi di un’amministrazione militare. Gli storici musulmani esaltano, in particolare, la battaglia di Nehàvand, dove circa 30mila arabi avrebbero battuto 150mila persiani - uccidendone due terzi - nonostante le loro supercorazzate armate, tra cui giganteggiavano gli elefanti. Come fu possibile? Una spiegazione è legata all’esteso conflitto che, all’inizio del VII secolo, vide contrapposti bizantini e persiani, con molti fronti in Palestina, Siria ed Egitto.

La freccia bianca indica proprio l’avanzata dei persiani verso occidente, dove conquistarono Gerusalemme, devastando la chiesa del Santo Sepolcro e provocando la reazione violenta di Bisanzio. Proprio di questo logoramento dei due colossi militari avrebbero poi approfittato le forze arabe.

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