Politica

Scontro D’Alema-De Benedetti? In realtà è una guerra su Veltroni

La genesi dello scontro culminato con gli insulti: Baffino non ha mai sopportato le ingerenze di Repubblica e l’editore del quotidiano ha sempre tifato per Walter

Scontro D’Alema-De Benedetti? 
In realtà è una guerra su Veltroni

Roma - Ci hanno provato in tanti, nel corso dei lustri, ad organizzare conferenze di pace tra i due arci-nemici. Da Alfredo Reichlin alla marchesa Sandra Verusio nel suo salotto in Via dei Coronari, i mediatori che hanno tentato di far andare d’accordo Carlo De Benedetti e Massimo D’Alema hanno visto puntualmente fallire i loro sforzi: ogni volta la tregua è durata giusto qualche giorno, poi è ricominciata la guerra.

Oggi tra i due volano gli stracci: «D’Alema ha ammazzato il Pd ed è un problema umano»; «De Benedetti vuole condizionare la politica ma è solo un Berluschino». Ma la storia dell’inimicizia tra l’editore di Repubblica e l’ex premier diessino è antica, e strettamente intrecciata alle vicende della sinistra italiana. Ed è, come dice Francesco Cundari, giornalista filo-dalemiano autore di Comunisti immaginari, «la storia della lunga guerra tra gli eredi del Partito d’Azione e quelli del partito di Togliatti». D’Alema, orgoglioso figlio del Partito e strenuo difensore dell’«autonomia della politica», non ha mai sopportato la tutela illuminata del Partito di Repubblica, e la tenace volontà di Scalfari, De Benedetti e Mauro di influenzare le scelte e la leadership della sinistra. E lo ha detto chiaramente, a più riprese: «Ormai c’è qualcosa di più che il normale pettegolezzo giornalistico. Ci sono lobby, interessi, gruppi che pensano spetti a loro dirigere la sinistra italiana», disse nel ’96. Più recentemente, a chi gli chiedeva se De Benedetti fosse il vero capo della sinistra, ha risposto: «Assolutamente no. Il centrosinistra ha una leadership politica. Io rispetto le battaglie giornalistiche, ma non possiamo essere la proiezione politica di un giornale. Siamo un partito. Ognuno deve fare il suo mestiere».

Memorabile, per chi lavorava a fianco dell’allora segretario del Pds, fu la cena organizzata nel ’96 con l’Ingegnere e il direttore dell’Espresso, Claudio Rinaldi, per ricucire i rapporti dopo un bruciante attacco del settimanale debenedettiano: la copertina sul «Dalemoni», mostro mitologico partorito dalla immaginifica penna di Giampaolo Pansa. Con i baffi di D’Alema e la mente (in particolare le opinioni sui magistrati) di Berlusconi. «Massimo tornò da quella cena soddisfatto, e si disse certo che gli attacchi ad alzo zero sarebbero finiti», racconta un testimone dello staff dalemiano. «Passarono cinque o sei giorni tranquilli. Poi uscì il nuovo numero dell’Espresso. E nella rubrica degli indiscreti veniva virgolettata una frase pronunciata a cena da D’Alema. Scoppiò una guerra nucleare». La frase era quella sui «due flaccidi imbroglioni di Palazzo Chigi»: il premier Romano Prodi e il suo vice Walter Veltroni. Le relazioni diplomatiche nella maggioranza, come è facile capire, ne risentirono non poco. E D’Alema, ammettendo di essere stato ingenuo a fidarsi, se la legò al dito. Da allora, racconta un suo stretto alleato, «con Repubblica parla solo in viva voce e in presenza di testimoni».
Ma non è che prima le cose andassero meglio. Anzi. Basta ricordare il titolo con cui, il 2 luglio 1994, Repubblica salutò in prima pagina l’elezione di D’Alema a segretario del Pds: «Il pugno del partito». Nelle settimane precedenti, dopo il drammatico addio di Achille Occhetto, Eugenio Scalfari e Repubblica avevano puntato tutte le loro carte su Walter Veltroni, promuovendo l’idea di un «referendum» per scegliere il nuovo segretario e alimentando la campagna pro-Walter. Che vinse il referendum con la base, ma perse clamorosamente (249 a 173) la conta nel Consiglio nazionale del partito. Grigio apparato post-staliniano contro illuminata società civile: così Repubblica bollò la vittoria del «pugno» dalemiano. E il copione si è riproposto ciclicamente uguale quando si trattò di tirare la volata al Pd di Veltroni e Rutelli (quello di cui l’Ingegnere voleva la «tessera numero uno») o di scegliere tra Bersani, sponsorizzato da D’Alema, e Franceschini, nel frattempo entrato nelle grazie di Repubblica, e frequente commensale di Ezio Mauro. Oggi ai vertici di Repubblica confidano un certo sconforto sulle sorti del Pd. Non sanno più cosa inventarsi. Auspicano «papi stranieri» ma - tra Nichi Vendola, Roberto Saviano e Mario Draghi - non trovano il nome forte. Intravedono un ritorno in campo di Walter ma non vogliono perdere due volte la stessa scommessa.

Gli resta solo D’Alema con cui prendersela.

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