Cultura e Spettacoli

È scontro padri-figli nel sud di Rubini

RomaAppena può, Sergio Rubini torna a far cinema in Puglia. Si direbbe una questione di pelle, odori, colori, dialetto. «È il mio personale teatro di posa a cielo aperto», gli piace dire. Cominciò nel 1990 con La stazione e v’è tornato almeno altre dieci volte. Del resto, lì è nato, a Grumo Appula, cinquant’anni fa. Da tre settimane è di nuovo da quelle parti (Bari, Gravina, San Vito dei Normanni...) per girare il suo nuovo film, il decimo da regista. Titolo, semplice e misterioso allo stesso tempo, L’uomo nero. Produce Donatella Botti con Raicinema, da un copione firmato dallo stesso Rubini insieme a Domenico Starnone e Carlo Cavalluzzi.
Come sempre, cast ricco: Fabrizio Gifuni, Riccardo Scamarcio e Valeria Golino di nuovo insieme sullo schermo (non succedeva dai tempi di Texas), Margherita Buy, Maurizio Micheli, Anna Falchi, Mario Maranzana, Mariolina De Fano. E naturalmente lui, Rubini, nei panni del protagonista, tal Ernesto Rossetti, un capostazione con la passione per la pittura impressionista. Anziano e morente all’inizio del film, prima che il flashback lo riporti, più giovane e combattivo, ai prediletti anni Sessanta.
Che cosa racconta L’uomo nero? Il regista-attore l’ha anticipato in una lunga intervista rilasciata a Oscar Iarussi per la Gazzetta del Mezzogiorno. Tutto ruota attorno alle ambizioni artistiche di un capostazione, appunto Rubini, sposato con una professoressa di lettere (la Golino) e padre di un bambino, Gabriele, che da grande avrà le fattezze di Gifuni. Ricorda il regista-attore, che al mondo dell’arte ha dedicato il precedente Colpo d’occhio: «Negli anni Sessanta-Settanta vi fu un’esplosione di interesse nei confronti degli impressionisti. De Chirico diceva che la maledizione di tutti i pittori è di essere riprodotti dai dilettanti». Uno di questi, appunto, è Ernesto Rossetti ne L’uomo nero. Sfidando il ridicolo, prende a dipingere alla maniera del prediletto Paul Cézanne, e per questo viene preso di mira nel paesino in cui abita, San Vito. Da uomo stravagante ed estroso diventa via via una sorta di perseguitato, un po’come succedeva a Stefano Satta Flores in C’eravamo tanto amati. I notabili lo sfottono, ironizzano sulle sue ambizioni artistiche. E intanto - spiega Rubini - «le frustrazioni dell’uomo si riversano in famiglia, fra le mura domestiche, tra sfuriate e insofferenze».
In un contesto da commedia meridionale, tra dentisti cornuti, formose mogli romagnole, direttori di musei e professori saccenti che scrivono per la Gazzetta, si sviluppa la vicenda agra vista con gli occhi del piccolo Gabriele, il figlio che a un certo punto vedrà il padre quasi impazzire dopo l’esito fallimentare di una mostra personale organizzata in paese. Stroncato come dilettante e imbrattatele, il poveretto scarica rabbia e angoscia sulla famiglia e gli amici. Rivela il regista a Iarussi: «Agli occhi di Gabriele si trasforma in una specie di uomo nero. Ecco, il film racconta la presa di coscienza di questo bimbo, la sua voglia di smarcarsi dal padre che vede soffrire e che lo fa soffrire».
E qui, pare di capire, torna un tema caro a Rubini, che non ha a che fare solo con la memoria degli anni Sessanta, l’intreccio generazionale, la riconciliazione tra padri e figli, l’immagine più o meno stereotipata di un certo Sud. «Vorrei che fosse un film anche sull’Italia di oggi. Il tema di fondo è l’amatorialità, l’improvvisazione, che porta dritti al Grande Fratello. Quelli erano anni in cui le masse, e dentro ci metto anche il nostro ferroviere, cominciano a sentire il desiderio di emergere. Intendo: emergere come individui, non più come masse. Ma l’intellighenzia e la sinistra non se ne curarono affatto. Una distrazione fatale. Oggi i ragazzi puntano ad emergere senza saper fare alcunché».

Difficile dargli torto.

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