Walter Tevis è uno dei più grandi scrittori americani del Ventesimo secolo e probabilmente voi non lo sapete. Non è grave, non lo sapeva neanche lui. Ci sono scrittori che scrivono romanzi e scrittori che «sono» i loro romanzi, che imprigionano, volenti o nolenti, la propria vita nella pagina.
Walter Tevis (1928-1984) apparteneva, anche se ne avrebbe fatto volentieri a meno, alla seconda categoria. Ha scritto sempre di se stesso, ha scritto sempre avendo il terrore di non essere adeguato a contenere, ad arginare con la diga della parola paure, ossessioni e quell’innato talento che, in una qualche maniera, lui sentiva come persecutorio.
Tevis non era spinto da quella che con espressione orribile i critici chiamano «urgenza narrativa», Tevis era l’urgenza narrativa, era l’ossessione vivente dell’«urgenza narrativa». Per questo, odiandosi, ha prodotto poco e bevuto molto. Per questo è un gigante bifronte che incarna, contemporaneamente, il sogno americano del successo e il terrore, tutto a stelle e strisce, dell’inadeguatezza esistenziale. E qui, leggendo, potreste esservi chiesti: «ma come è possibile che il nome Tevis non mi dica niente?». Perché viene raramente incluso nel novero degli scrittori maledetti di cui tutti bramano di raccontarci qualcosa?
Semplicemente Tevis è i suoi romanzi, le sue sceneggiature. E quelli li conoscete: Lo spaccone, Il colore dei soldi, L’uomo che cadde sulla terra, La regina degli scacchi. Se non li avete letti li avete visti al cinema. Tevis è quella stecca da biliardo retta con maestria dal più bel Paul Newman. Tevis è il volto diafano di David Bowie schiacciato dalla gravità terrestre. Nella pagina di Tevis trasborda la sua vita. Qualche esempio?
Eddy lo svelto, l’eroe de Lo spaccone (appena pubblicato in Italia da minimum fax, pagg. 256, euro 11) ha il talento del vincente, di quello che non può perdere. Però non ne ha il carattere, non ne ha la tempra. Né fisica, né mentale. Walter Tevis era un buon giocatore di biliardo e un grandissimo scrittore. Il biliardo lo aveva conosciuto ai tempi del liceo, a Richmond. Giocava con Toby Kavanaugh, un compagno di scuola che gli insegnò l’arte del rinterzo. Kavanaugh in seguito divenne un fortissimo giocatore professionista e poi il proprietario di una sala a Lexington. Lavorando in un biliardo e giocando, invece, Tevis si mantenne all’università. Tevis però era malato. Affetto sin dall’infanzia da una malattia reumatica. Non poteva diventare un campione.
Sulla scrittura, invece, limiti non ne aveva. La sua penna era naturalmente agile, poco influenzata dagli studi di letteratura inglese all’Università del Kentucky e molto dalla vita vissuta. Così, mentre insegna, sentendosi un alieno, nelle scuole delle piccole cittadine del Kentucky batte i tasti della macchina per scrivere come prima faceva battere la stecca sulla palla. Ciò che ha visto nelle sale da biliardo si trasforma, nel ’59, in The Hustler (Lo spaccone). Il romanzo ha subito un enorme successo. Due anni dopo è su tutti gli schermi e Walter ne firma la sceneggiatura. Hollywood gli spalanca tutte le porte. Ha quella che gli americani chiamano la grande occasione.
Insomma Tevis è per tutti uno che ce l’ha fatta. Nessuno sembra collegare la vita di questo scrittore con gli occhi carichi di furbizia, con i suoi personaggi. Con l’ansia di trovarsi una sconfitta che trapela dai fallimenti di Eddy lo svelto, dalla malattia e dall’alcolismo della bella Sarah.
Così quando arriva, nel ’63, il suo secondo romanzo, L’uomo che cadde sulla terra (in Italia sempre per i tipi di minimum fax) tutti lo prendono semplicemente per un geniale romanzo di fantascienza. Il libro viene lodato dalla critica in maniera rara per essere un romanzo di genere. Ci fu chi parlò per il protagonista, l’alieno che si infiltra fra gli uomini con il nome di Thomas Jerome Newton, di una figura cristologica. Le ragioni: un essere diverso portatore di sapienza e tecnologia, distante anni luce da ogni forma di violenza, più che umano per fragilità eppure distante e irraggiungibile per forza di volontà e capacità di amare. Nessuno vide in Newton (che, una volta scoperto, finisce accecato e alcolizzato) la parabola umana dello scrittore. Invece Tevis, proprio in quegli anni, diventa schiavo dei suoi troppi drink. Non ha più la forza di affrontare la pagina bianca.
Così travolto da se stesso si mise a insegnare stancamente all’Università. Si iscrisse come un esordiente qualsiasi ai corsi di scrittura che venivano tenuti da autori meno famosi e bravi di lui. Corsi dove venivano lodati i suoi stessi libri. A uno di questi seminari lo trovò una volta il poeta Donald Justice, che non riusciva a capacitarsi di vederlo lì seduto, umile e un po’ triste in mezzo a dei ragazzini tutti pervasi della loro futura grandezza.
Andò avanti così sino al ’75, quando iniziò a disintossicarsi e a scrivere di nuovo, nel disperato tentativo di riagguantare il tempo perduto (Mockingbird e La regina degli scacchi). I suoi rimanevano romanzi sul gioco, sull’insoddisfazione, sull’alcol. Ma ora sullo sfondo compariva l’idea di una possibile via d’uscita. Accompagnata però da un inguaribile rimpianto: Tevis sapeva che parte della sua vita se n’era andata e che un cancro era intenzionato mangiarsi pian piano quel che ne restava. Così quando scrive Il colore dei soldi, la bellissima continuazione dello Spaccone vi fece scivolare una battuta emblematica, rivolta a Eddie lo Svelto: «Te ne sei rimasto seduto sul tuo talento per vent’anni».
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