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"La scuola non è più Cosa loro"

Il ministro dell'Istruzione Gelmini: "Era una fabbrica di consenso, ora è tornata dello Stato. I genitori chiedono di educare i figli, non di indottrinarli. Ha ragione Brunetta: i poteri forti tramano per tentare la riedizione del ribaltone"

"La scuola non è più Cosa loro"

Finora l’unico insulto che hanno risparmiato a Mariastella Gelmini è quello che il senatore socialdemocratico Luigi Angrisani, fondatore della Lista del gallo, riservava sulle piazze della Campania al suo rivale democristiano Fiorentino Sullo, il ministro della Pubblica istruzione in carica giusto 40 anni fa. Il pittoresco parlamentare interrogava un gallo tenendolo per le zampette: "Sullo è ’nu poco ricchione?". E subito faceva partire una scossa elettrica nei testicoli del pennuto, che rispondeva assertivamente con uno straziato chicchiricchì. Per il resto, alla donna di governo del Pdl - la quarta nella storia repubblicana a dirigere quel dicastero, dopo Franca Falcucci, Rosa Russo Iervolino e Letizia Moratti - ne hanno dette di tutti i colori.
Offrendole la poltrona più irta di spine, il premier Silvio Berlusconi era stato facile profeta: «Non aspettarti la fanfara». Lei sembra essersene fatta una ragione: «Non mi spavento. Anzi, le dirò, non me ne importa nulla. È vero che non posso paragonarmi né a Benedetto Croce né a Giovanni Gentile, ma, se è per quello, non vedo dei Croce o dei Gentile neppure fra i miei predecessori. La sinistra mi odia perché le ho tolto il controllo sull’insegnamento. La scuola è sempre stata una sua sinecura, una fabbrica di consenso politico. Be’, adesso non è più un’azienda privata: è tornata proprietà dello Stato, cioè di tutti». Il ministro dell’Istruzione trascorre il week-end nella sua casa di Padenghe sul Garda, un condominio senza pretese color giallo oro. Abita al secondo piano. Scende lei ad aprire. In salotto un computer acceso, pile di faldoni che s’è portata da Roma, un tapis roulant e i pesi per mantenersi in forma. Né scorte, né domestici, né autoblù ad aspettarla giù di sotto. Tutto si potrà dire, tranne che ami le insegne del comando. Al cancello d’ingresso, un segnale arancione, con le sagome nere di due scolari che attraversano di corsa la strada, le ricorda l’eterno pericolo: finire asfaltata.

Ho visto che venerdì era a Rovereto per Educa 2009.
«Non ci sono andata».

La manifestazione nazionale è stata presentata dagli organizzatori con due pagine pubblicitarie sul Corriere della Sera nelle quali si leggeva che lo scopo è quello di «appasionare», con una sola s, i ragazzi allo studio.
«Ho fatto bene a non andarci».

Meglio dedicare le energie alla grana dei precari.

«È una piaga endemica. Per decenni la scuola è stata considerata un ammortizzatore sociale. Ha venduto illusioni che si sono trasformate in delusioni. Oggi la sinistra tenta un giochetto miserevole: ascrivere i 250.000 precari alla responsabilità di Berlusconi. Ma anche i tigli che vede lì fuori capirebbero che non è così».

Un’eredità del passato.
«Degli Anni 70 e 80 e dei tanti concorsi banditi senza che vi fosse un numero programmato. Questo governo, al contrario, ha varato un provvedimento-tampone che prevede un’indennità di disoccupazione e una corsia preferenziale per i supplenti annuali. Ma l’opposizione, anziché avanzare proposte alternative, predilige il terrorismo psicologico. Per un anno mi hanno accusata di voler tagliare il tempo pieno. Ha idea di quale effetto sortisca una simile notizia su due genitori che lavorano tutto il giorno e non sanno a chi lasciare in custodia i figli il pomeriggio? Mi hanno telefonato allarmate persino alcune coppie di amici. La verità è che non solo il tempo pieno non è stato abolito ma ne usufruiscono 50.000 bambini in più rispetto al passato».

È un fatto che, insediata da poco più di un mese, lei aveva già presentato un piano per il taglio di 148.000 posti, di cui 101.000 insegnanti e 47.000 amministrativi e ausiliari.
«No, sono 86.000 docenti e 42.000 non docenti in un triennio. I sindacati mi hanno fatto passare per Maria la Sanguinaria. Mettiamo bene in chiaro una cosa: la Gelmini non ha licenziato e non licenzia nessuno. Quest’anno faremo 16.000 immissioni in ruolo, metà insegnanti e metà personale tecnico-amministrativo, e 30.000 prepensionamenti».

Tanto rumore per nulla?

«Il governo ha solo preso atto che la scuola ha raggiunto una cifra stratosferica di dipendenti, 1,3 milioni. Non esiste alcuna nazione al mondo dove il bilancio dell’istruzione venga prosciugato per il 97% dal pagamento degli stipendi. La media europea è intorno al 50%. Quindi bisogna invertire il trend del continuo allargamento della pianta organica. Lavoriamo perché i quindicenni di oggi non diventino i precari di domani. Se questo desta l’allarme dei sindacati, non posso farci nulla. Le nuove generazioni vanno attrezzate alla cultura del rischio. Preferisco dire loro con schiettezza che l’idea del posto fisso, dell’insegnante che comincia e finisce la carriera nello stesso istituto, non è più realistica».

Dario Franceschini ha dichiarato che «tagliare le risorse alla scuola è un suicidio collettivo», perché un Paese non può risparmiare sul proprio futuro.
«È futuro consegnare ai giovani un Paese con il terzo debito pubblico al mondo? Certo, sono capaci tutti di governare alla maniera di Franceschini: basta mettere le mani nelle tasche dei cittadini, ripristinare l’Ici, magari inventarsi una bella patrimoniale. Noi invece preferiamo stringere un po’ la cinghia ed evitare gli sprechi. Ho tagliato 1.300 corsi di laurea inutili, ho chiuso 500 scuole di specializzazione che non specializzavano in nulla».

Ho letto che ha anche recuperato quasi 10 milioni di euro in contributi a pioggia che il suo ministero avrebbe dovuto erogare. Ha bocciato le richieste dell’Associazione allevatori provincia di Taranto, che pretendeva 350.000 euro, o dei Silenziosi operai della croce, che volevano addirittura un milione.

«Il vero scandalo è che questi finanziamenti venivano rubricati alla voce “ricerca”. Io non credo che si rilanci l’innovazione scientifica con le micro elargizioni clientelari».

Ha lasciato alla porta anche la Fondazione Umberto Veronesi.
«Non decido io. C’è un comitato di valutazione».

Teme che il professor Giorgio Israel possa fare la stessa fine di Marco Biagi solo per il fatto d’essere suo consulente, oltreché ebreo?

«Non voglio neppure pensarlo, anche se le parole sono pietre e chi ha lanciato quelle infami minacce su un sito internet dovrà assumersene tutta la responsabilità. Ho scelto il professor Israel come consulente per la sua grande esperienza scolastica. Non ha un carattere facile, difende le sue idee. E le sue idee sulla scuola e sull’università collimano con le mie».

Ma lei che scuola sogna?

«Una scuola che torni a educare la persona, che si assuma questa enorme responsabilità, anziché parlare soltanto di organici e di programmi».

Invece che scuola ha trovato?
«Un ufficio di collocamento. La scuola ha smarrito il senso della sua missione e funziona male. Lo attestano le classifiche internazionali: su 57 Paesi presi in esame, i nostri alunni figurano al 36° posto per le competenze scientifiche, addirittura al 38° per quelle matematiche, e al 33° per la capacità di lettura e di comprensione del testo. Sono più bravi persino gli studenti di Taipei e di Macao».

Lei non sta messa meglio: L’Espresso questa settimana le ha appioppato un 6 meno meno in copertina.
«Visto che non si tratta di una testata bensì di un partito impegnato a far fuori Berlusconi, lo considero un ottimo voto. Non sono nemmeno riusciti a darmi l’insufficienza. Ma non ho compreso quale fosse lo scopo dell’inchiesta. Wher’s the beef? dov’è la ciccia?, come chiedono i direttori dei giornali anglosassoni ai cronisti. Manca la notizia. Solo qualche gossip biografico. Mi rimproverano d’essere figlia di un contadino, d’aver visto la luce in una cascina anziché ai Parioli. Cos’è? Una colpa?».

«Un curriculum scolastico anonimo, una laurea in legge senza lode», ha ricostruito il settimanale gemello di Repubblica.
«Sono uscita dal liceo classico con 50/60, che non mi pare proprio un voto disprezzabile. Hanno intervistato il professor Antonio D’Andrea, ordinario di diritto costituzionale all’Università di Brescia, “che dell’impacciatissima laureanda fu relatore”. Ci mancherebbe altro che avesse parlato bene di me: già allora era vicino a Rifondazione comunista e oggi è relatore soprattutto nei dibattiti organizzati dal Partito democratico. Si figuri quanto poteva piacergli la mia tesi sul referendum regionale e sul federalismo. L’Espresso scrive che ho cambiato tre volte scuola. Per forza: ho cambiato tre volte casa e località di residenza».

L’accusano d’essere andata - proprio lei, la propugnatrice della meritocrazia - a sostenere l’esame d’abilitazione per il praticantato legale a Reggio Calabria, dove forse era più facile passarlo che non a Brescia.
«Non mi pare che gli ordini professionali siano avamposti della meritocrazia. Provengo da una famiglia umile, avevo bisogno di lavorare, per cui sono andata dove c’erano più probabilità di accedere alla professione. L’esame è stato regolare. Non è che un minuto dopo mi abbiano dato un posto e uno stipendio. Un avvocato lavora solo se è bravo».

Non ho ancora capito se sia lei oppure Renato Brunetta il ministro più vituperato.
«È una bella guerra. Renato me l’ha anche fatto osservare con un sorrisetto: “Che credevi? Che L’Espresso sbattesse in copertina solo me?”. Sono totalmente d’accordo con lui: i poteri forti appoggiano il Pd per tentare una riedizione del ribaltone. Del resto io e Brunetta ci occupiamo di scuola e di pubblica amministrazione, le due privative della sinistra. Ma i fatti dicono che gli insegnanti vogliono essere premiati per il loro valore, non progredire nella carriera solo per anzianità, e che i genitori ci chiedono di educare i loro figli, non d’indottrinarli. Il contrario della cultura sessantottesca che ha imperversato fino a ieri».

È favorevole all’insegnamento del dialetto a scuola?

«Se questo rientra nella difesa dell’identità locale, delle nostre tradizioni, non sono contraria. L’integrazione non è né facile, né indolore. Soprattutto non significa resa. Non si amalgamano gli alunni italiani con quelli extracomunitari togliendo i crocifissi dalle aule, rinunciando alle recite natalizie, mettendo da parte la religione cattolica per non offendere la sensibilità dei nuovi arrivati».

Si capisce il senso della frase con cui Benedetto XVI l’ha salutata al G8: «Lei è una donna tenace».
«La maggioranza degli elettori è contraria ai cedimenti buonisti e in democrazia va rispettata l’opinione della maggioranza. Esempio: l’accorciamento dei tempi per la concessione della cittadinanza agli immigrati secondo me rappresenta una scorciatoia pericolosa».

Come farà a mettere un tetto del 30% alla presenza di alunni extracomunitari se in alcune classi arrivano oltre il 90%?
«Il come lo decideremo. Si potranno redistribuire all’interno del plesso. L’importante è che si sappia una cosa: sono i dirigenti scolastici i primi a chiedercelo».

Le sembra normale che per una supplenza di pochi giorni in una scuola primaria del Veneto le direzioni didattiche cerchino un precario in Sicilia?

«No, anche perché un palermitano costretto a insegnare a Vicenza avrà come unico obiettivo quello di tornare a casa. Così come non è normale che ogni anno 200.000 docenti cambino cattedra. La continuità didattica va garantita. Ma ci sono le graduatorie nazionali da rispettare. Serve una nuova legge per il reclutamento su base provinciale, al massimo regionale».

Grembiule, 5 in condotta per i discoli, ammissione all’esame di maturità soltanto se non si scende sotto il 6 in tutte le materie, maestro unico, più lezioni di inglese, Sms per avvisare i genitori che i loro figli hanno marinato la scuola. È sicura che queste novità da lei annunciate siano diventate tutte operative?
«Sì, anche se alcune sono demandate all’autonomia dei singoli istituti, come il grembiule, un fatto di decoro e di uguaglianza che segna la fine dell’insensata rincorsa alla magliettina griffata. Difenderò fino alla morte il ritorno del maestro unico prevalente. Un responsabile della didattica ci vuole. Il modulo con i tre insegnanti non esiste in nessun altro Stato d’Europa. Se l’erano inventato i sindacati per sopperire al calo della natalità. Una furbata per non ridurre il personale docente».

Ha provato a parlarne con sua sorella Cinzia, che mi risulta sia sindacalista della Cgil scuola?
Lasci stare mia sorella. Con lei sono sempre riuscita a dialogare».

Devo farle un esame di cultura non generale, bensì specifica. La sigla Invalsi che vuol dire?

«Istituto nazionale di valutazione per lo sviluppo del sistema scolastico».

Ahi ahi. Istituto nazionale per la valutazione del sistema dell’istruzione.
«È la stessa cosa».

Pof, Care, Siis, Indire, Gold, Irre. Ma chi ha inventato a viale Trastevere questo modo grottesco d’esprimersi per acronimi? Il suo stesso ministero è stato ribattezzato Miur, manco fosse una Lamborghini.
«È il burocratese caro alla sinistra. Ci combatto tutti i giorni. Ho chiesto al mio ufficio legislativo di modificare persino il linguaggio delle circolari».

Incursione nel privato: si sposa o no col geologo Giorgio Patelli?
«Capiterà. Ormai stiamo insieme da quasi due anni. Ma non mi chieda anche lei la data».

La vita di una ministra è compatibile col matrimonio?

«Spero di sì. E anche con la maternità, come ha già dimostrato la mia collega Stefania Prestigiacomo. Semmai mi preoccupa la mia scarsa attitudine alla cucina. Non vado oltre le uova al tartufo. Quello nero, eh, non bianco».

S’aspettava d’essere paparazzata a Positano mentre prendeva il sole in bikini e si scambiava effusioni col suo fidanzato?
«No».

Aveva preso qualche precauzione, almeno?

«Molte. Una per tutte: non siamo mai scesi in spiaggia, solo piscina. E vede quant’è servito».

Che cosa pensa di questa deriva pettegola della politica italiana?

«Mai visto nulla di più squallido. Ne sappiamo qualcosa io e Mara Carfagna, i bersagli prediletti dei fabbricanti di maldicenze. È molto brutto sentirsi colpita nella propria femminilità. Ma gli italiani sono provvisti di buonsenso. Questa colata di fango seppellirà chi l’ha provocata».

Stefano Lorenzetto
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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