Se il boss diventa l’idolo della folla

Un altro gran bel colpo, quello mandato a segno dal ministro Maroni e dalle forze dell'ordine, con la cattura del «Riina calabro». Ulteriore conferma che la mafia (e la 'ndrangheta e la camorra, certo) non è così impermeabile e invulnerabile come si vorrebbe far credere. Ma che va combattuta con i fatti, piuttosto che con i convegni, le marce e gli appelli, armi spuntate di coloro che Leonardo Sciascia liquidò come professionisti dell'antimafia. La latitanza di Giovanni Tegano e gli applausi che un centinaio di devoti gli ha tributato al momento del suo ingresso in questura lascia però aperto un altro aspetto della dura guerra dello Stato alla mafia. Era da diciassette anni che Tegano aveva fatto perdere le sue tracce. Ma non si era rintanato in qualche grotta dell'Aspromonte, non si era confuso nell'anonimato di una metropoli come Città del Messico, bensì a Reggio stessa e potremmo dire sotto gli occhi di tutti. Protetto da una cortina di omertà e di complicità è stato in grado di condurre una vita sicuramente circospetta, ma non da braccato, permettendosi le sue ore d'aria passeggiando tra la folla, magari concedendosi una sosta al bar. Come quasi tutti i presenti nell'elenco dei più pericolosi ricercati, poi stanati dai carabinieri o dalla polizia, anche Giovanni Tegano ha potuto fare affidamento per diciassette lunghi anni sulla collusione, sul favoreggiamento diretto o indiretto di centinaia di cittadini che si limitavano - e che limite - a far finta di non conoscerlo. Di non sapere chi egli fosse. Qualcuno per affinità elettiva, per un moto di partecipazione nei confronti del sistema - della cultura, si direbbe oggi - mafioso. Qualcun altro per paura, per la consapevolezza che in quelle circostanze a uno sguardo troppo prolungato, a un'occhiata troppo insistente sarebbe seguito il canto della lupara.
Poi ci sono gli applausi. C'è quella donna che rivolta a boss mafioso ha urlato: «Tegano uomo di pace!», sorprendentemente appropriandosi di un'espressione cara, molto cara, alla così detta società civile e misericordiosa. Giuste le reazioni indignate e tenorili alla provocatoria manifestazione di solidarietà; giusto anche sottolineare che la Calabria non si riconosce negli applausi a Tegano, ma è «quella che applaude le forze dell'ordine e che gioisce dell'arresto di uno dei più pericolosi latitanti della malavita calabrese». Certo. Ma è con quella claque, è con gli omertosi cittadini che hanno protetto per diciassette anni la sedicente latitanza di Tegano che l'antimafia deve anche fare i conti. Liberandoli dalla paura e dando loro prove concrete che nel Meridione lo Stato c'è, lo Stato esiste. E si manifesta con una corretta amministrazione della cosa pubblica, con la repressione del crimine - anche e soprattutto quello di piccolo taglio, la microcriminalità che tanto poco interessa le procure - con la certezza della pena, con un’assistenza medico-sanitaria che non si pretende a livelli di eccellenza, ma per lo meno rispettosa del paziente. Guidate con mano decisa da ministri quali Maroni, la mafia può essere vinta.

Ma non senza un simultaneo intervento della politica che con i fatti, non certo a parole, persuada coloro che per sfiducia o per antagonismo o disprezzo delle forze di polizia inneggiano o proteggono i mafiosi, che l'alternativa allo Stato non possono e non devono essere gli «uomini di pace». Qualche fiaccolata, qualche corteo, qualche sottoscrizione di appelli in meno e più servizio ai cittadini, questa è la ricetta.

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