Se D’Alema gioca sulla pelle dei soldati

Il «Grande gioco» tra Russia e Gran Bretagna per il controllo dell’Afghanistan era una cosa molto seria, che ebbe una profonda influenza sugli equilibri politici dell’Ottocento. Il «Grande gioco» all’italiana, la nuova invenzione con cui Prodi e D’Alema - magari con la collaborazione di Gino Strada - cercano da un lato di fare le mosche cocchiere in Afghanistan e dall’altro di tenere buona la sinistra massimalista, rischia invece di finire, se non proprio in burletta, in un imbarazzante buco nell’acqua. La partita era già arrischiata prima della vicenda Mastrogiacomo, perché la decisione del governo di rifiutare la richiesta della Nato di potenziare il nostro contingente e di togliere i caveat che a tutt’oggi gli impediscono di partecipare ai combattimenti sul fronte sud avevano già notevolmente diminuito il nostro peso specifico sul territorio. Ora che, pur nel lodevole intento di riportare a casa sano e salvo l’inviato di Repubblica, abbiamo dovuto pregare il presidente Karzai di rilasciare ben cinque pericolosi capi Talebani (di cui uno è già tornato a combattere), regalando agli islamisti un notevole successo di immagine, il nostro potere negoziale è ulteriormente diminuito. Per giunta, abbiamo ritenuto opportuno affidarci in esclusiva a un mediatore, il dottor Strada, che si è senz’altro conquistato una meritata fama di benefattore con i suoi ospedali, ma che è notoriamente un nemico del legittimo e democratico governo di Kabul, della Nato e degli americani. Infine, nell’ansia di riportare a casa il nostro collega, ci siamo dimenticati di garantire il rilascio anche del suo disgraziato interprete, autorizzando così i giornalisti afghani a chiedere se la vita di un reporter italiano valga più di quella di un loro collega.
Ma c’è di peggio: nel cedere al ricatto dei tagliagole del mullah Dadullah, che lo stesso Mastrogiacomo ha definito nel suo diario «pazzi e fanatici», abbiamo impresso al conflitto una svolta molto pericolosa, perché d’ora in avanti ogni giornalista o ogni cooperante occidentale sarà un bersaglio, in quanto potenziale moneta di scambio per la liberazione di altri terroristi. Sebbene Karzai si sia affrettato a precisare che il caso del giornalista italiano resterà un unicum, i Talebani torneranno sicuramente a provarci, e difficilmente il governo afghano (e quello americano, che in questo caso ha fatto buon viso a cattivo gioco) potranno negare a olandesi, canadesi o francesi quanto hanno concesso agli italiani.
Nonostante tutti questi scheletri nell’armadio, Massimo D’Alema si è presentato al Consiglio di Sicurezza dell’Onu con il piglio del protagonista, chiedendo di imprimere a un conflitto che sta divampando in tutta la sua ferocia quella «svolta pacifista» richiesta dai suoi alleati dell’estrema sinistra per dare luce verde al rifinanziamento della missione. Fare la guerra, ha detto il nostro ministro, non serve «senza un rapido e solido progresso nelle condizioni di vita della popolazione e nella ricostruzione civile e senza il pieno e positivo coinvolgimento dei Paesi vicini», che sarebbero poi l’Iran di Ahmadinejad e il Pakistan che, per la debolezza del governo centrale, ha praticamente lasciato le sue province di confine in mano a Osama Bin Laden e ai Talebani.
Al centro del suo intervento, c’era la proposta della convocazione di una conferenza di pace, che né Karzai, né l’America, né la Gran Bretagna vogliono, e che obiettivamente non si capisce che utilità possa avere in questa fase. Perfino un giornale amico come il Corriere usa, per il piano dalemiano, espressioni come «ai limiti del verosimile», «temerario» e «facili velleitarismi». Per fortuna, D’Alema ha avuto almeno il pudore di non rilanciare in questa sede la proposta di Fassino, osannata dalla sinistra massimalista ma accolta con scetticismo nella stessa maggioranza, di invitare al tavolo anche i Talebani.

Ma l’effetto è stato egualmente quello di un Paese che, pur avendo sulla scena un ruolo di secondo piano, pur avendo appena inferto un brutto colpo alla credibilità della coalizione, pur essendo vistosamente in debito con Karzai e gli americani, pretende in una specie di delirio di onnipotenza di dettare ai veri protagonisti un cambiamento di strategia. Sarebbe questa la politica estera con cui Prodi dice di avere restituito all’Italia il prestigio perduto dal cattivo Berlusconi?

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